Espressione di una profonda frattura storica il neorealismo

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Espressione di una profonda frattura storica, [il neorealismo italiano], si nutrì di un nuovo

Espressione di una profonda frattura storica, [il neorealismo italiano], si nutrì di un nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e di una ideologia nuove che erano proprio della rivoluzione antifascista. In cui vi era la consapevolezza del fallimento della vecchia classe dirigente e del posto che, per la prima volta nella nostra storia, si erano conquistate sulle scene della società civile le massi popolari. Vi era l'esigenza della scoperta dell'Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria, nelle sue assurde contraddizioni e insieme una fiducia schietta e rivoluzionaria nelle nostre possibilità di rinnovamento e nel progresso dell'intera umanità [. . . ]; si presentava come autentico movimento di avanguardia [. . . ] perché tendeva a riflettere i punti di vista, le esigenze, le denunce, la morale di un movimento rivoluzionario reale e non soltanto culturale [. . . ]. Si presentò così come arte impegnata contro l'arte che tendeva ad eludere i problemi reali del nostro Paese; contrappose polemicamente nuovi contenuti ( partigiani, operai, scioperi, segnorine ) all'arte della pura forma e della morbida memoria [. . . ]; cercò un mutamento radicale delle forme espressive che sottolineasse la rottura con l'arte precedente e potesse esprimere più adeguatamente i nuovi sentimenti; si pose il problema di una tradizione di arte autenticamente realistica e rivoluzionaria a cui riferirsi, scavalcando le esperienze decadenti dell'arte

 • Nell’immediato dopoguerra, tra tante speranze e illusioni, fiorì, impetuosa e fragile, presuntuosa

• Nell’immediato dopoguerra, tra tante speranze e illusioni, fiorì, impetuosa e fragile, presuntuosa e sentita, la convinzione che esistesse finalmente una narrativa italiana. In realtà, una narrativa italiana era sempre esistita, sia pure accentrata in pochi nomi di rilievo, ma quelli non erano giorni da mezze misure: si ricominciava tutto da capo o magari si cominciava da zero. Il periodo dell’ermetismo poetico, il periodo della cifra come difesa cosciente o incosciente contro le velleitarie direttive culturali del periodo fascista, il periodo delle compiaciute allusioni e delle capziose insinuazioni, era una vergogna da dimenticare in fretta, il nuovo periodo avrebbe traboccato di chiarezza, coraggio, impegno. Impetuosa e fragile, presuntuosa e sentita, una simile convinzione fu la convinzione di molti. • La nuova narrativa italiana, la narrativa dei molti che si improvvisarono scrittori, si pose sotto un’etichetta americana. Elio Vittorini, l’indiscusso maestro di quella leva, aveva introdotto e contrabbandato tra noi autori grossi e piccoli come portatori del verbo della libertà. [. . . ] • Gli improvvisati scrittori erano reduci dalla guerra, si consideravano autorizzati e incalzati dalla realtà a non perdere ulteriore tempo nell’approfondimento della loro approssimativa cultura, avevano fretta di esprimersi e di imporsi il più in fretta possibile, adottavano formule e vizi, schemi e manierismi delle traduzioni di romanzi e racconti americani. • • Oreste Del Buono, I Peggiori Anni della Nostra Vita ( Turin, Einaudi, 1971 ), pp. 115 -18.

 • La narrativa di oggi non può ignorare lo stato civile, il mestiere,

• La narrativa di oggi non può ignorare lo stato civile, il mestiere, la geografia, la classe. È realistica perché esiste in noi un desiderio necessario, cioè artistico, di scoperta, e per motivi storici questo desiderio è di scoperta non soltanto di noi ma degli altri: giacché non li conoscevamo, e scoprirli fa parte di ogni nostro continuare a vivere. Questo comporta un mutamento di vita per lo scrittore, che esce dalla letteratura non soltanto con la testa, ma col corpo. • La vita non ripete mai né se stessa né i romanzi. Sembra, ma ti guarda le cose in superficie. O a chi supponendo di scrutare nel fondo delle cose, vi si acceca al punto da non vedere piú nulla, se non il buio della propria anima. Come un qualsiasi uomo, preso nella sua struttura, può paragonarsi a un qualsiasi altro uomo, mentre ne è totalmente diverso, cosí la forza di un romanzo consiste nel darci, della vita, non l'immagine dentro uno specchio, ma il suo inesauribile movimento. Il romanzo è scienza in quanto è ricerca, ma non approda mai né a una verità né a una scoperta. I romanzieri sono uomini carichi d'immaginazione e privi di fantasia, condannati all'analisi di ciò che è tangibile, sia degli aspetti della natura che dell'animo umano. Sovente li detesto, quando mi accorgo della somma d'energie e dell'impegno che mettono, nel ridurre la loro intelligenza alla misura del convenzionale di cui siamo impastati. I loro libri non ci liberano da nessuna delle nostre angosce, semmai le esasperano, e ci suggeriscono una pluralità di soluzioni. È questo, in definitiva, che me li fa sopportare ( LS, pp. 567 -68 ). • Ottiero Ottieri, La Linea Gotica ( Milan, Bompiani, 1962 ), pp. 21 -22.

 • Ma è proprio la pura strumentalità del romanzo, la sua prontezza e

• Ma è proprio la pura strumentalità del romanzo, la sua prontezza e remissività a servire all’atto di imperio creativo del romanziere, a essere entrata in discussione. Non è soltanto dalla molteplicità del mondo, nelle sue nuove dimensioni non euclidee che il romanziere si sente inquietato, ma anche dalle proprie relazioni con la forma ( il romanzo ) che è nell’atto di adibire. Questi rapporti non sono che alcuni degli infiniti che intercorrono fra il romanziere e la realtà: e per la prima volta essi si presentano altrettanto incerti, sperimentali, variabili quanto tutti gli altri. Il romanziere non è più sicuro di nulla, neppure dello scrivere romanzi: via egli si trova a integrare quanto più può di altro anche rispetto a questa funzione centrale del suo essere poetico. • [. . . ] Il romanzo è un rapporto con quell’invenzione verosimile ( nel senso manzoniano ) che chiameremo personaggio, con la durata temporale, con la società, il costume, la condizione storica, con la cultura, l’ideologia e soprattutto con il linguaggio, ma è anche un rapporto con colui che lo scrive. Questo movimento del romanzo verso se stesso, non dirò che siano stati i narratori moderni a inventarlo ( esso è implicito nella natura del genere ), ma certo la loro preoccupazione dominante è stata di portarlo al pieno livello di coscienza ( Gramigna, p. 9 ).

 • Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale

• Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali; tutto è legato al mondo psicologico dell’uomo, e nulla vi si può affermare di nuovo che non sia pura e semplice scoperta umana. La mia appartenenza al Partito Comunista indica dunque quello che io voglio essere, mentre il mio libro può indicare soltanto quello che in effetti io sono. C’è nel mio libro un personaggio che mette al servizio della propria fede la forza della propria disperazione d’uomo. Si può considerarlo un comunista? Lo stesso interrogativo è sospeso sul mio risultato di scrittore ( UN, p. ix ). • L’uomo si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e che era, in lui, per renderlo felice. Questo è l’uomo. Ma l’offesa che cos’è? È fatta all’uomo e al mondo. Da chi è fatta? E il sangue che è sparso? La persecuzione? L’oppressione? Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo è anche l’uomo. Il Gap anche? Perdio se lo è! Il Gap anche, come qui da noi si chiama ora, e comunque altrove si è chiamato. Il Gap anche. Qualunque cosa lo è anche, che venga su dal mondo offeso e combatta per l’uomo. Anch’essa è l’uomo. Ma l’offesa in se stessa? È altro dall’uomo? È fuori dall’uomo? ( UN, p. 157 ).

 • La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa. . .

• La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa. . . [. . . ] la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta ad uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale a loro, m’intendi? uguale a loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. [. . . ] Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo ( ISd. Nd. R, pp. 151 -52 ). •

 • La vita non ripete mai né se stessa né i romanzi. Sembra,

• La vita non ripete mai né se stessa né i romanzi. Sembra, ma ti guarda le cose in superficie. O a chi supponendo di scrutare nel fondo delle cose, vi si acceca al punto da non vedere piú nulla, se non il buio della propria anima. Come un qualsiasi uomo, preso nella sua struttura, può paragonarsi a un qualsiasi altro uomo, mentre ne è totalmente diverso, cosí la forza di un romanzo consiste nel darci, della vita, non l'immagine dentro uno specchio, ma il suo inesauribile movimento. Il romanzo è scienza in quanto è ricerca, ma non approda mai né a una verità né a una scoperta. I romanzieri sono uomini carichi d'immaginazione e privi di fantasia, condannati all'analisi di ciò che è tangibile, sia degli aspetti della natura che dell'animo umano. Sovente li detesto, quando mi accorgo della somma d'energie e dell'impegno che mettono, nel ridurre la loro intelligenza alla misura del convenzionale di cui siamo impastati. I loro libri non ci liberano da nessuna delle nostre angosce, semmai le esasperano, e ci suggeriscono una pluralità di soluzioni. È questo, in definitiva, che me li fa sopportare ( LS, pp. 567 -68 ).

MORANTE L’ISOLA DI ARTURO • Romanzo sarebbe ogni opera poetica, nella quale l’autore -

MORANTE L’ISOLA DI ARTURO • Romanzo sarebbe ogni opera poetica, nella quale l’autore - attraverso la narrazione inventata di vicende esemplari ( da lui scelte come pretesto, o simbolo delle 'relazioni' umane nel mondo ) - dà intera una propria immagine dell’universo reale ( e cioè dell’uomo nella sua realtà ). [. . . ] Il problema del linguaggio - come ogni altro problema del romanziere - si identifica e si risolve, da ultimo, nella realtà psicologica del romanziere stesso, e cioè nella intima qualità del suo rapporto col mondo. [. . . ] Ogni uomo può sempre ritrovare, in se stesso, una risposta per le proprie domande: anche per quelle a cui perfino la scienza, o la storia, o la religione, rispondono in modo incerto. Questa ultima risposta ( resa a lui dalla sua ragione e dalla sua immaginazione insieme ) è il punto limpido della 'verità poetica', riconoscibile in tutte le cose reali. [. . . ] Non si deve dimenticare che il romanziere, per sua natura, non è soltanto un termine sensibile nel rapporto fra l’uomo e il destino, ma è anche lo studioso e lo storico di questo rapporto sempre diverso. Non si può trasferire travisare il valore della parola, giacché le parole, essendo i nomi delle cose, sono le cose stesse. • • Elsa Morante, 'Nove domande sul romanzo' in Nuovi Argomenti, nn. 38 -9, 1959, pp. 17 -38.

 • L'Isola di Arturo racconta, in prima persona, dell'adolescenza di Arturo che vive

• L'Isola di Arturo racconta, in prima persona, dell'adolescenza di Arturo che vive nell'isola di Procida, un luogo, allo stesso tempo reale, perché l'isola esiste davvero, e fantastica, perché la scrittura di Morante è in grado di trasfigurare l'isola in modo che possa essere in qualsiasi parte del mondo anche in una fantastica. È una specie di Eden in cui Arturo può vivere la dimensione magica della sua epoca. Il privilegio di Arturo è l'assoluta libertà che ha. Un bambino senza madre, adora il padre che diventa un mito per lui. Ma il padre non ricambia questo sentimento, creando, in Arturo, delusione e frustrazione. Arturo vive la sua fantastica vita aspettando il ritorno di suo padre dai suoi costanti viaggi fuori dall'isola e il giorno in cui Arturo può accompagnarlo. In uno dei suoi ritorni, il padre di Arturo porta a casa una nuova moglie, Nunziatina. La prima reazione, in Arturo, è un istintivo sentimento di odio perché ha paura che Nunziatina gli tolga anche il poco tempo che ha con suo padre. Ma poi, dopo un'altra partenza di Wilhelm, il padre, Arturo prova un sentimento misterioso per Nunziatina. Questa sensazione lo distrae dalla sua sensibilità per la natura e la libertà. Si innamora di lei, ma dopo averla baciata, rifiuta di accettare questo amore perché non è naturale e inoltre non sa davvero cos'è l'amore. Arturo e Nunziatina vivono entrambi a disagio mentre aspettano Wilhelm, ma quando torna lo shock è ancora maggiore. Arturo scopre che suo padre, che gli ha sempre rappresentato una leggenda con storie di terre e donne lontane, è omosessuale. Arturo si sente ingannato ma è maturato. La sua adolescenza è finita, ora può lasciare l'isola e la sua fantasia portando con sé due semi-sentimenti: uno per Nunziatina e uno per Wilhelm. In breve, questa è la trama di L'Isola di Arturo. Questo romanzo è una sorta di fiaba che segue lo schema: bellezza-stregoneria-inganno. In altre parole, Arturto il brutto anatroccolo è affascinato dalla bellezza della principessa Nunziatina il cui bacio provoca la stregoneria:

ARTURO DIVENTA UN UOMO • Dico paura, perché allora non avrei saputo definire con

ARTURO DIVENTA UN UOMO • Dico paura, perché allora non avrei saputo definire con altra parola piú vera il mio turbamento. Sebbene avessi letto libri e romanzi, anche d’amore, in realtà ero rimasto un ragazzino semibarbaro; e forse, anche, il mio cuore approfittava, a mia insaputa, della mia immaturità e ignoranza, per difendermi contro la verità ? Se ripercorro col pensiero, adesso, fin dal principio, tutta la mia storia con N. , imparo che il cuore, nelle sue gare contro la coscienza, è estroso, avveduto e fantastico quanto un maestro costumista. Per creare le sue maschere, gli basta magari una trovata da niente; a volte, per travestire le cose, sostituisce semplicemente una parola con un’altra. . . E la coscienza si aggira in questo gioco bizzarro come uno straniero a un ballo mascherato, fra i fumi del vino (L’Id. A, p. 296). • • Avevo ricominciato a trascorrere le giornate intere fuori di casa, incontrandomi con N. il meno possibile. E in quelle ore di separazione, la mia mente stessa, senza nessun intervento della mia volontà, si separava dall’immagine di lei. Non ripensavo mai al suo viso, né, ancora meno, al suo corpo; si sarebbe detto che anche il mio pensiero rifuggiva dalla vista della matrigna! Ma pur senza guardarla, al modo di un pellegrino bendato, il pensiero ritornava a lei. ( L’Id. A, p. 299 ). •

L’esperienza del bacio • Disperazione e solitudine: • E l’isola, per me, che cos’era

L’esperienza del bacio • Disperazione e solitudine: • E l’isola, per me, che cos’era stata, finora? Un paese d’avventure, un giardino beato! Ora, invece, essa mi appariva una magione stregata e voluttuosa, nella quale non trovavo da saziarmi, come lo sciagurato re Mida. Mi prendevano voglie di distruzione. [. . . ] Allora, ero preso da una compassione quasi fraterna di me stesso. Tracciavo sulla rena il nome: ARTURO GERACE aggiungendo È SOLO; e ancora, di seguito, SEMPRE SOLO ( L’Id. A, pp. 302 -303 ). • Il bacio segna il passaggio dall’adolescenza alla maturità, dal sogno alla realtà. Ma porta anche la delusione che pone fine alla fiaba. Una doppia delusione, la prima provocata da Nunziatina: '“ Artú, [. . . ] io prima ti volevo bene. . . come a un figlio. Ma adesso. . . non ti voglio piú bene. [. . . ] E perciò meno ci vedremo, e meno mi parlerai, e meglio sarà. Considera come s’io fossi sempre rimasta una forestiera per te; perché la parentela nostra è per sempre morta! E ti chiedo di tenerti sempre scostato da me, perché quando tu mi stai vicino, io sento schifo!”' (L’Id. A, p. 331). • La seconda da parte di Wilhelm che ha sempre lasciato credere di essere qualcun altro: 'Mentre che, invece, lui è il sicuro tipo che non s’è mai slattato dalle poppe di sua madre, e mai si slatterà! E in fatto di viaggi, da quando s’è stanato là dai suoi paesi barbari e s’è ritrovato la culla in questo bel vulcano, sarà molto, ch’io sappia, se è arrivato fino a Benevento, o a Roma-Viterbo!' ( L’Id. A, p. 383 ).

 • Titoli dei paragrafi: 'Re e stella del cielo', 'Nipote d'una orchessa? ',

• Titoli dei paragrafi: 'Re e stella del cielo', 'Nipote d'una orchessa? ', 'La tenda orientale', 'Un sogno di Arturo', 'Il doppio giuramento', 'L'anello di Minerva', 'Regina delle donne', 'Le colonne d'Ercole', 'Atlantide', 'Il bacio fatale', 'Reggia di Mida', 'Parodia’. • Tutti termini che rimandano al magio e fantastico come l’inizio del romanzo intriso di leggenda: • Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi sembra , il primo a informarmene), che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato pure da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli ( L’Id. A, p. 7 ).

 • Arturo vive ‘nella solita regione dormiente della mia fantasia’ ( L’Id. A,

• Arturo vive ‘nella solita regione dormiente della mia fantasia’ ( L’Id. A, p. 344 ). Arturo vive di immagini: • • Di lei, in realtà, io ho sempre saputo poco, quasi niente: giacché essa è morta, all’età di nemmeno diciotto anni, nel momento stesso che io, suo primogenito, nascevo. E la sola immagine sua ch’io abbia mai conosciuta è stata un suo ritratto su cartolina. Figurina stinta, mediocre, e quasi larvale; ma adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza (L’Id. A, p. 7). •

 • Il secondo elemento fantastico è l'isola. L'isola rappresenta la natura e anche

• Il secondo elemento fantastico è l'isola. L'isola rappresenta la natura e anche la cornice ideale per una storia magica, e questo perché l'isola è una metafora del distacco dalla realtà, poiché l'isola è staccata dal continente, che è la metafora della storia in quanto tutti gli eventi che si verificano immediatamente sono conosciuti e vissuti da tutti, mentre gli stessi eventi richiedono tempo per arrivare sull'isola e talvolta non ci arrivano nemmeno, specialmente se poche persone ci vivono. Impostando la storia su un'isola, Morante vuole dire che non vuole affrontare la storia. In effetti, nell'isola non c'è storia, tutti gli eventi che possono accadere non arrivano sull'isola. La natura e uno stile di vita naturale governano l'isola. Tutto ha una rilevanza magica. Arturo vive la sua infanzia solitaria guidata da istinti e alcune letture: "Le serate invernali, i giorni di pioggia, io li occupavo con la lettura. Dopo il mare, e i vagabondaggi per l'isola, la lettura mi piaceva di più di tutto '(L’Id. A, p. 18). Anche le letture hanno contribuito a nutrire l'immaginazione di Arturo, che presto si concentra su suo padre: I libri che mi piacevano di più, è inutile dirlo, erano quelli che celebravano, con esempi reali o fantastici, il mio ideale di grandezza umana, di cui rivedevo in mio padre l'incarnazione vivente. S'io fossi stato un pittore, e avessi dovuto illustrare i poemi epici, i libri di storia ecc. , Credo che, nelle vesti dei loro eroi principali, avrei sempre dipinto il ritratto di mio padre, mille volte (L'Id. A, p 38). Arturo misura la sua vita e solitudine dalle partenze di Wilhelm e ritorna sull'isola. Trascorre tutto il suo tempo in assoluta solitudine, una solitudine che gli sembra essere la sua condizione naturale. Ogni visita che suo padre fa all'isola sembra, ad Arturo, un favore straordinario, una concessione speciale di cui Arturo era orgoglioso. La sua infanzia era come un paese felice il cui re assoluto era suo padre, nonostante la vulnerabilità e la casualità di Wilhelm: "Ogni suo atto, ogni suo discorso aveva una fatalità drammatica per me. In effetti, lui era l'immagine della certezza, e tutto ciò che lui diceva o faceva era il responso di una legge universale dalla quale io dedussi i primi comandamenti della mia vita. Qui stava la massima seduzione della sua compagnia '(L’Id. A, pagg. 31 -32).

 • Dando troppo peso all’immaginazione Arturo perde contatto con la realtà e sperimenta

• Dando troppo peso all’immaginazione Arturo perde contatto con la realtà e sperimenta un sentiment di inferirità nei confronti del padre sentendosi come un gamberetto in presenza di un grande delfino e basa il suo codice di Verità Assolute sul padre: ‘ I. L’AUTORITÀ DEL PADRE È SACRA! [. . . ] IV. NESSUN CONCITTADINO VIVENTE DELL’ISOLA DI PROCIDA È DEGNO DI WILHELM GERACE [. . . ]’ ( L’Id. A, p. 33 ). • Wilhelm diventa un leggenda reale per la giovane mente di Arturo. Tutto quello che Wilhelm fa o pensa è sacro. Per esempio la misoginia che Wilhelm prova è condivisa da che la espande connotazioni fantastiche: ‘Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra e la gloria erano privilegi virili. Le donne, invece, erano l’amore; e nei libri si raccontava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà’ ( L’Id. A, p. 51 ).

 • La vita di Arturo è fatta di sogni fantasiosi. Non sono sogni

• La vita di Arturo è fatta di sogni fantasiosi. Non sono sogni che sembrano compensare la realtà con trionfi spuri. Sono sempre sogni tristi che mostrano l'amarezza della sua condizione. Nei sogni Arturo sente il divario tra l'immaginazione e la sofferenza. Nella sua infanzia non ha imparato a verbalizzare le cose perché le parole, per lui, rappresentavano la realtà che non aveva nulla a che fare con la fiaba interna che voleva vivere. Ecco perché quando Nunziatina arriva sull'isola Arturo non può chiamarla con il suo nome: "Invece io, non solo quel giorno, ma anche in seguito, evitai di chiamarla pure col suo nome. Per rivolgermi a lei, o richiamare la sua attenzione, le dicevo: senti, dí, tu, o magari fischiavo. Ma quella parola: Nunziata, Nunziatella, non avevo proprio voglia di pronunciarla '(L’Id. A, p. 87). Rappresenta una minaccia per la fiaba, una sorta di lupo mannaro che distruggerà i castelli in aria. Questo sarà totalmente trasformato quando Arturo raggiungerà la maturità; a quel punto verrà nominata Nunziatina, entrerà a far parte della fiaba: Il nome di Nunziata, Nunziatella è stata trasformata per me, quasi in un motto astruso: come una parola d'ordine fra congiunti, la quale, nel venire assunta a trd subdole, si spoglia del suo senso originario. Cosí, neanche il suono di quel nome, ormai simbolo di un’oscura legge infranta !, non riportato dalla mia mente al volto, alla persona fisica di lei. Fuori dalla sua presenza, la persona di lei pareva nascondermisi dentro una nuvola; poi, appena tornavo in sua presenza, la nube si squarciava per mostrarmi sempre il volto severo della negazione (L’Id. A, p. 300). Con l'arrivo di Nunziatina, Arturo impara ad affrontare l'altro mondo, la realtà a cui non appartiene. Nunziatina, ad esempio, porta la realtà della religione che Arturo non conosce: "Era molto di piú: era un Nome, unico, solitario, inaccessibile; non lo chiedo grazie, anche lo si adora; e, in fondo, il compito di tutta l'immensa folla di Vergini e di Santi che accoglie le preghiere, i voti e i baci, è questo: salvaguardare l'accessibilità alla solitudine di un Nome '(L’Id. A, p. 103).

 • Le due realtà collidono e si scontrano. Nunziatina trova nella religione la

• Le due realtà collidono e si scontrano. Nunziatina trova nella religione la risposta al fiabesco a cui Arturo replica con un inaspettato realismo: • • Fui tentato di rivelarle che i morti, quasi di sicuro, non hanno piú spirito, che nella morte tutto si spegne e che la sopravvivenza è la gloria; ma poi subito, ripensandoci, mi dissi che non servirebbe a nulla informarla di certe cose. Difatti, per lei la gloria, in nessun caso, non poteva mai darsi; e perciò, tanto valeva lasciarla illusa nelle sue opinioni ( L’Id. A, p. 105 ). • Il buio della stanza durò solo pochi secondi; ma in quei pochi secondi io tornai, d’improvviso, a rivivere un mio ricordo. Esso apparteneva a un’esistenza che io dovevo aver vissuta in tempi lontanissimi: secoli, millenni prima, e che solo adesso mi risaliva alla memoria. Sebbene non tutto chiaro, era un ricordo cosí veridico e certo che per un poco mi rapí al presente (L’Id. A, p. 121). • Arturo non accetta la diversità rappresentata da Nunziatina, per cui un libro è un’accozzaglia di parole bugiarde e morte mentre lui vuole essere un poeta : ‘Io voglio leggere tutti i libri di scienza e di vera bellezza: mi farò istruito come un grande poeta!’ ( L’Id. A, p. 128 ). • ‘Io adesso, alla mia età, non ignoravo piú che certi miei antichi progetti erano favole; ma glieli dissi lo stesso, ben sapendo che lei, tanto, m’avrebbe creduto’ (L’Id. A, p. 129). • ‘Credi che io non lo sappia, disse, che quelle sono favole di tuo padre? Però si capisce, soggiunse con sincerità coscienziosa, uno, quando si trova solo in una stanza, di notte, si mette paura anche delle favole’ ( L’Id. A, p. 170 ).

 • Grazie alla relazione con Nunziatina, Arturo cresce e abbandona l’infanzia: • ‘M’invadeva

• Grazie alla relazione con Nunziatina, Arturo cresce e abbandona l’infanzia: • ‘M’invadeva una solitudine arida; e dal fondo di questa solitudine, sentivo risalire l’angoscia innaturale da me conosciuta il giorno avanti per la prima volta. Di non sapere il destino’ (L’Id. A, p. 167). • ‘E mi rinchiusi nella mia solitudine annuvolata’ (L’Id. A, p. 207), ‘A quell’epoca, io, per quanto fossi bravo a meditare sulla Storia antica, sul destino e sulle Certezze Assolute, non avevo l’abitudine di indagare in fondo a me stesso. Certi problemi erano stranieri alla mia immaginazione’ ( L’Id. A, p. 182 ). Il suo processo di maturazione si svolge in tre fasi: 1) la consapevolezza che suo padre non teneva a lui quando si aspettasse: • Poi, in mezzo a queste illusioni strane, mi accadeva piú che mai di odiarlo, perché, come un invasore, s’impadroniva a questo modo della mia isola; ma pure sapevo che l’isola non mi sarebbe piaciuta tanto se non fosse stata sua, indivisibile dalla sua persona. I nuovi misteri che intravedevo, gli annunci inquietanti, indecifrabili, e i miraggi, gli adii dell’infanzia e della mia piccola madre morta e ripudiata, tornavano a ricomporsi nell’antica chimera multiforme che m’incantava. Questa chimera adesso mi rideva con altri occhi, tendeva altre braccia, e aveva diverse preghiere, voci, sospiri; ma non mutava il suo fatato velo: l’ambiguità, che m’imprigionava nell’isola come una ragnatela iridescente (L’Id. A, p. 215).

 • 2) il sentimento di gelosia per Nunziatina e poi per il fratellastro

• 2) il sentimento di gelosia per Nunziatina e poi per il fratellastro che riceve tutte le attenzioni e che rivela ad Arturp il bisogno di una madre vera : ‘Ho scritto i miei mali, ma avrei dovuto scrivere piuttosto: il mio male, perché in realtà il male, che mi aveva assalito da qualche tempo, era uno, e gli si poteva dare solo un nome: GELOSIA!’ (L’Id. A, p. 25). • 3) il bacio, • Durante questo viaggio Arturo affina il suo concetto di morte che era originariamente stato lasciato fuori dal codice delle verità assolute: • La mia fantasia non saprà mai concepire la ristrettezza della morte. A confronto di questa infima misura, diventano signorie sconfinate non dico l’esistenza di un misero prigionero dentro una cella, ma perfino quella di un riccio attaccato allo scoglio, perfino quella di una tignola! La morte è una irrealtà insensata, che non significa niente, e vorrebbe intorbidare la chiarezza meravigliosa della realtà (L’Id. A, pp. 276 -77). • Conflitto tra realtà e fantasia: ‘La fantasia mi soccorse spontanea. [. . . ] Seguii dunque la mia ispirazione, con intrepida naturalezza; assumendo un tono fiabesco e meditabondo, al quale i miei respiri ancora un po’ affaticati aggiungevano maestà!’ ( L’Id. A, p. 285 ). • Esso mi apparve, ormai, l’ultimo mezzo che mi rimanesse; e consisteva in ciò: nella mia morte! Forse, la vista della mia persona esanime poteva ancora far colpo su di lei. Non intendevo, naturalmente, di morire sul serio; ma per finta, studiando, tuttavia, una scena di verosimiglianza terribile, in modo ch’ella sicuramente cadesse nell’inganno ( L’Id. A, p. 273 )

Le intenzioni della Morante sono di inserire la storia in un limbo giocando con

Le intenzioni della Morante sono di inserire la storia in un limbo giocando con il fantastic e il reale per andare oltre il realismo. Vuole creare una parodia che nel finale viene rivelata quando scopre che parodia è il nome riferito al padre per coprire la sua omosessualità • ‘fuori del limbo non v’è eliso’ ( L’Id. A, p. 1 ), • Forse, la nostra natura ci porta a considerare i giochi dell’imprevisto piú vani e arbritari, troppo, di quel che sono. Cosí, ogni volta, per esempio, che in un racconto, o in un poema, l’imprevisto sembra giocare d’accordo con qualche segreta intenzione della sorte, noi volentieri accusiamo lo scrittore di vizio romanzesco. E, nella vita, certi avvenimenti imprevisti, per se stessi naturali e semplici, ci appaiono, per la nostra disposizione del momento, straordinari o addirittura soprannaturali ( L’Id. A, p. 413 ). • Qualcuno, caro piú d’ogni altro della sua amicizia, trascorreva i propri giorni murato fra quattro pareti maledette. [. . . ] egli bramava d’imitare, ora per ora, il patimento del suo amico; e anzi, avrebbe voluto, in un modo qualsiasi, meritarsi, come un onore, una condanna uguale, se non fosse che, con la privazione della libertà, avrebbe perduto ogni ultimo mezzo di comunicare con Lui! ( L’Id. A, p. 340 ). •

 • La prima cosa che Arturo fa è cercare il supporto del fantastico:

• La prima cosa che Arturo fa è cercare il supporto del fantastico: "E in un attimo la Casa di Pena mi si mostrava simile al Castello dei Cavalieri di Siria; fiabeschi avventurieri araldici, consacrati in un voto sanguinario, affollavano quel palazzo murato, nel quale solo mio padre accolto "(L’Id. A, p. 344). Questa volta, tuttavia, questo processo non è sufficiente. La sofferenza lo aiuta a passare su un altro palco e guardare indietro a Wilhelm come se fosse una fiaba. Ora, Wilhelm può davvero essere un personaggio fantastico perché diventa reale. Prima era solo fantastico e il frutto dell'immaginazione di Arturo; semplicemente non esisteva. Ora Wilhelm può essere amato perché è diventato reale. In altre parole, all'inizio Arturo idealizzava così tanto suo padre che sembrava irreale e anche l'amore di Arturo per lui era irreale perché non era diretto verso suo padre ma verso il suo padre ideale. Ora che Arturo si rende conto che il suo padre ideale non si scontra con suo padre, Arturo deve riconsiderare i suoi sentimenti e scoprire che si possono provare solo sentimenti per qualcosa di reale: Spesso certi nostri affetti, che presumiamo magnifici, addirittura sovrumani, sono, in realtà, insipidi; solo un’amarezza terrestre, magari atroce, può, come la vendita, suscitare il sapore misterioso della loro profonda mescolanza! Per tutta la mia infanzia e fanciullezza, io avevo creduto di amare W. G. ; e forse m’ingannavo. Soltanto adesso, forse, incominciavo ad amarlo. Mi è accaduto qualcosa di sorprendente, certo in passato non avrei potuto credere, se mi l'avessero predetta: W. G. mi ha fatto compassione (L’Id. A, p. 364).

 • La fiaba finisce con l'inganno e Morante sembra dire che il mondo

• La fiaba finisce con l'inganno e Morante sembra dire che il mondo fantastico deve attraversare le fasi della realtà se vuole avere un significato. Altrimenti, diventa solo un modo per fuggire. Arturo è un prodotto e produce fantasie e immaginazioni, ma non può gestirle senza avere una presa sulla realtà. Ciò che interessa non è il messaggio morale trasmesso da Morante. Ciò che è importante è che Morante, in L'Isola di Arturo, si fa strada attraverso il realismo usando l'immaginazione e l'elusività come pietre angolari. Il suo romanzo ha molti riferimenti alla fiaba, alla leggenda, alla mitologia e Morante usa questo linguaggio e queste immagini in modo intelligente per scrivere il romanzo. Tutta la storia è raccontata con la dolcezza, la pazienza e la sobrietà che ci si aspetta di trovare in una fiaba.

GRUPPO ‘ 63 • Un discorso sulla narrativa italiana del dopoguerra muove necessariamente, per

GRUPPO ‘ 63 • Un discorso sulla narrativa italiana del dopoguerra muove necessariamente, per quel che ci riguarda, dalla dichiarazione di un’insoddisfazione radicale, totale, coinvolgente, che quasi non lascia luogo a eccezioni e a recuperi; per chi scrive queste righe non vi può esser dubbio: essa è tutta 'sotto' un certo livello di decenza e di consapevolezza, quale può esser richiesto da un pubblico moderno. [. . . ] in quanto una prima caratteristica della nostra narrativa del dopoguerra è proprio quella di presentarsi come un terreno minuto e frantumato, non unificato da poetiche, da precettistiche operanti sul piano tecnico. Si pensi ad esempio quanto difficoltoso sarebbe ingaggiare una discussione sul neorealismo, date le varie accezioni e iridiscenze che questo clima ha via assunto. Sicché primo nostro compito non sarà già quello di affrontare agguerrite e bene congegnate poetiche, quanto piuttosto di scavare, di affondare in quel terreno, fino a trovare, al di sotto delle dichiarazioni velleitarie, dei programmi fallaci e provvisori, le strutture che hanno realmente funzionato. • Il pregiudizio piú appariscente, ma anche il piú scoperto e quindi piú facilmente confutabile, è quello che porta a credere che sul reale esercitino una sorta di diritto di prelazione le ideologie, le strutture proprie di ambiti di ricerca storica, economica, politica. A esse il privilegio di andare a strutturare il reale secondo criteri loro intrinseci; all’arte il compito di rispecchiare questo 'vero' precedentemente stabilito senza il suo concorso, concedendole tutt’al piú la facoltà di abbellirlo, ovvero di presentarlo in panni piacevoli, con maggiore adesione al fenomenico, con rivestimento sensuoso (Renato Barilli, ‘Cahier de Doléances sull’ultima narrativa italiana’ in CT, pp. 157 - 58).

 • Si tratta, vorremmo dire, di una piatta, incondizionata adesione al 'senso comune':

• Si tratta, vorremmo dire, di una piatta, incondizionata adesione al 'senso comune': intendo qui con tale nozione l’ambito complessivo delle concezioni psicologiche, affettive, etiche, logiche, ecc. , in base alle quali risultano regolati i nostri rapporti col mondo nella vita immediata, nella vita di tutti i giorni; sistema non coerente e rigoroso, ma d’uso pratico, punto d’arrivo di strutture e di concezioni formulate rigorosamente in altra sede, un tempo provviste di validità storica, ma poi decadute e sedimentate sul fondo, a costituire un humus, una piattaforma di base su cui si svolge la convivenza umana immediata. Si sa che il 'senso comune', in tale accezione, interviene positivamente in molti sistemi speculativi contemporanei, costituendo appunto la 'piattaforma zero' su cui poi si ergono i livelli, gli 'universi di discorso' scientificamente responsabili ( laddove esso, per definizione, è irresponsabile, non può rispondere a un’inchiesta metodica ). Ma in tali sistemi speculativi il 'senso comune' entra in tensione dialettica con i tentativi di superarlo, di trascenderlo messi in atto dai vari piani di ricerca; mentre, venendo ai nostri narratori, dobbiamo constatare che essi non si limitano ad accettarne la presenza come polo dialettico opportuno per sostenere una tensione con un’opposta polarità eversiva, il che sarebbe perfettamente legittimo, ma lo assumono senza discussione, con resa incondizionata ( Barilli, pp. 158 -59 ). •

 • Arte dunque, tra l’altro, come momento della revisione di tutti i nostri

• Arte dunque, tra l’altro, come momento della revisione di tutti i nostri rapporti col mondo, del disinteressato esame di essi ( e disinteressato significa qui: senza prevenzioni, evitando il ricorso a schemi, ad abbreviazioni indebite ). Altrimenti, se non sia intervenuta questa tensione verso il nuovo, verso una verifica e un reinveramento del 'senso comune', la presunta comunicazione si riduce una tautologia: in realtà non si comunica niente, almeno di comunicazione che si possa dire estetica, ma ci si limita a manipolare idee e principi risaputi, restituendoli tutt’al piú inseriti in un contesto sensuoso, ornati dall’aggiunta della favola, del racconto ( Barilli, pp. 159 -60 ).

 • La crisi della realtà si manifesta nell’impossibilità in cui sono caduti gli

• La crisi della realtà si manifesta nell’impossibilità in cui sono caduti gli uomini di oggi di riconoscere nei fatti reali che continuano a compiere, nei sentimenti che continuano a provare altro valore che quello della funzione pratica. Oramai i fatti, tanto di ordine naturale che sociale, morale e sentimentale, si esauriscono in un risultato eminentemente utilitario, non lasciando alcun riporto in grado di costituirne il riscatto ideale. Questo riporto rappresenta la possibilità poetica delle 'cose' o, anche, il tramite grazie al quale esse entrano in contatto con la Storia, cioè con una sfera di valori assoluti, nella quale, beneficiando di una forte investitura di senso, superano la casualità del loro accadere (Angelo Guglielmi, ‘Forma e contenuto nella narrativa d’oggi’ in CT, p. 176). • È caratteristica propria dell’avanguardia rifiutarsi di esprimere una qualsiasi idea sul mondo, resistere a ogni tentazione definitoria. E resistere senza alcuno sforzo, affatto naturalmente. Essa sul mondo esprime molte opinioni, molti umori, tra loro assai contraddittori, tendenziosi, occasionali. L’avanguardia non pretende suggerire un modo ( non importa se vecchio o nuovo ) di intendere il mondo ma anzi nasce e trova alimento nella consapevolezza dell’inesistenza di un tale modo ( inesistenza obiettiva e incapacità della Storia ). [. . . ] Anzi si può tranquillamente affermare che la linea avanguardistica della cultura contemporanea tende a prospettarsi il mondo come un centro invincibile di disordine. [. . . ] Al posto della Storia è subentrato uno spazio in cui tutto ciò che accade diventa insensato e viene falsificato (CT, p. 268).

 • Entrato definitivamente in crisi l’istituto linguistico si pone il problema di tentarne

• Entrato definitivamente in crisi l’istituto linguistico si pone il problema di tentarne il recupero. Naturalmente il recupero riguarda la funzione e non lo strumento. Lo strumento è per sempre logoro. Ogni ponte tra parola e cosa è crollato. La lingua in quanto rappresentazione della realtà è ormai un congegno matto. Tuttavia il riconoscimento della realtà rimane lo scopo dello scrivere. Ma come potrà effettuarsi? La lingua che ha fin qui istituito rapporti di rappresentazione con la realtà, ponendosi nei confronti di questa in posizione frontale, di specchio in cui essa direttamente si rifletteva, dovrà cambiare punto di vista. E cioè o trasferirsi nel cuore della realtà, trasformandosi da specchio riflettente in accurato registratore dei processi, anche i piú irrazionali, del formarsi del reale; oppure, continuando a rimanere all’esterno della realtà, porre tra se stessa e questa un filtro attraverso il quale le cose, allargandosi in immagini surreali o allungandosi in forme allucinate, tornino a svelarsi (Angelo Guglielmi, ‘Avanguardia e Sperimentalismo’, in CT, p. 331). •

 • La forma romanzesca non sarà mai piú la stessa: per ragioni endogene,

• La forma romanzesca non sarà mai piú la stessa: per ragioni endogene, si spalanca e si spacca nell’universo-metamorfosi di innumerevoli romanzi che incominceranno a mostrare e superare il proprio ‘disagio’ nei confronti degli inganni della realtà, delle ambiguità proliferanti nella percezione, della provata inanità degli interscambi fra Letteratura e Natura e Giudizio. . . e la Società e il Sogno e il Rispecchiare e il Desiderio e le Dimensioni e le Emozioni e le Intenzioni e il Tempo e la Verità e la Fantasia. . . e l’Angst (CR, pp. 47 -48). • • Forse, quella cara metafora che è il Centro ( lo diceva già Yeats ) si disloca: la Struttura diventa la vera protagonista di straordinarie avventure intellettuali ed estetiche, il ‘plot’ si identifica con la riflessione problematica, accogliendo ogni specie di suggerimenti incongrui, sempre meno connessi alla ‘trama’. . . componendo l’immagine piú ‘variante’ - e precisa - che la narrativa sia in grado di proporre sul problema 'del come ' far fronte a un’oggettività che non è mai la stessa mediante una descrittività di cui non si è affatto certi e valendosi di strumenti linguistici sui quali si comincia appena a sperimentare. . . collage, assemblage, bricolage far pseudo-conoscenze ed exfeticci privati dei nessi logici e delle continuità stilistiche e delle prospettive ‘di valore’ che formavano il corpus di convenzioni della narrativa ‘ben fatta’. . . ora del tutto spalancata non soltanto a ogni integrazione ‘organica’ e ‘strutturale’ e ‘corporea’ e ‘materica’ e ‘vocale’, ma a qualsiasi intervento aleatorio da parte dei capricciosi Utenti e dei volubili Astanti ( CR, p. 50 ).

 • Insomma, il romanzo ‘irrealizzabile’ che si sforza di liberarsi di fatti e

• Insomma, il romanzo ‘irrealizzabile’ che si sforza di liberarsi di fatti e personaggi e simboli e oggetti-metafora e metafore-oggetto come di ‘scorie’, per tendere alla ‘purezza’ di un mondo soltanto di idee, come l’universo concettuale delle lirica ‘pura’ e della ricerca filosofica. . . Ma nel suo sforzo verso questa ‘purezza’ impossibile, cessa ogni volta di essere romanzo nell’atto stesso di raggiungerla ( CR, pp. 174 -75 ). • Lo scrittore [. . . ] o non dev’essere piuttosto un intelletto lucidamente funzionante, al corrente con le idee del tempo in cui vive, aggiustando criticamente i propri problemi esistenziali e creativi sulle questioni che si trova a fronteggiare hic et nunc - e che si riassumono nel Come Rappresentare Criticamente la Realtà, ovvero Come Far Fronte con l’Arte-che-è-ordine ai Disordini della Realtà? ( CR, p. 177 ). • Insomma, il romanzo-saggio: cioè il meglio dei due mondi. . . magari in forma di finta autobiografia di idee, ecco l’unica forma narrativa che mi interessi veramente oggi. Ma non oltre un certo limite: gli elementi extra-narrativi bisogna proprio che siano subordinati alla trama, divorati dalla struttura romanzesca. Mai il contrario: sennò, fai dei saggi-romanzi tramati narrativamente, reportages e recensioni che mimano schemi di Fiction illustri. . . Per questo continuo a battere la testa contro il romanzo tradizionale 'ristrutturato dall’interno', e non riesco a liberarmene, anche se poi in pratica mi diventa un’altra cosa, perché il progetto parte sempre geometrico come il tracciato di un giardino all’italiana, e poi durante la realizzazione è tutto un lasciar correre il vento dell’inconscio, dell’irrazionale, dell’automatico, dell’onirico. . . finché ti trovi lí un bel parco all’inglese, un organismo tutto diverso dotato di leggi proprie e destino autonomo. . . Ma tanto, la finalità del romanzo o del dramma dovrebbe essere prima di tutto il Divertimento. Peccato solo che in italiano sia una parola sospetta, che odori tanto di avanspettacolo e di colpevolezza ( Fd. I, p. 53 ).

 • Perché uso questi artifici? Probabilmente per sfuggire allo stress semiologico per cui

• Perché uso questi artifici? Probabilmente per sfuggire allo stress semiologico per cui ogni cosa deve necessariamente significare qualcosa, mentre appare insensata la maggior parte del mondo, ammesso che il mondo esista. La comunicazione è indispensabile per esternare le nostre necessità quotidiane in mezzo a tanta insensatezza, ma l’espressione e la finzione sono esigenze primarie di riscatto per l’uomo che si rifiuta di diventare una nera formica. Io credo che tutti, oltre alla necessità quotidiana di comunicare, sentano il desiderio di esprimersi. Qualcuno ha detto addirittura che la vita è espressione, ma forse esagerava. Diciamo che mentre la comunicazione è funzionale per condurre i nostri rapporti e per inserirci nella macchina sociale ( tra parentesi anche per mentire perché la menzogna si realizza nell’area della comunicazione ), l’espressione è un segno della evoluzione personale, lo spazio che ognuno di noi riserva all’immaginazione dove la temperatura cresce per l’attrito con la realtà e con le sue incertezze, indipendentemente dal fatto che sia o non sia uno scrittore. [. . . ] Quando le parole finiscono il significato continua. Quando il lettore ha esaurito le parole, ha chiuso il libro e lo ha riposto nello scaffale, continuano ad agire in lui le inquietudini, i dubbi, i pensieri, le prospettive, le immaginazioni, i turbamenti trasmessi dalla lettura del libro. Se questo non avviene lo scrittore ha fallito il suo scopo. Direi che da questo risultato si distingue un libro di consumo da un testo letterario (CVS, pp. 72 -73). •

 • Solo il linguaggio può guidare il romanziere nella realtà più profonda delle

• Solo il linguaggio può guidare il romanziere nella realtà più profonda delle cose perchè le parole hanno significati molteplici : • • Ma forse si può procedere oltre: affermare che le parole hanno tutti i significati, e non solo quelli del dizionario, ma soprattutto quei vaghi fluttuanti significati che nessun dizionario è in grado di cogliere e catalogare, significati che propriamente stanno tra parola e parola; si potrà chiedere allora perché vengono scritte alcune, e non altre parole, e perché le frasi, diciamo, si conformano a quel modo. Le parole, le frasi sono unicamente dei grafici, dicono le distanze, le altezze, le geometrie nell’ambito delle quali si debbono collocare le letture. Ma dunque, l’autore potrebbe essere il disegnatore dei grafici: 'potrebbe' se non usasse le parole, che, abbiamo visto, hanno tutti i significati e soprattutto i non significati. manganelli • • Giorgio Manganelli, Pinocchio: un Libro Parallelo ( Turin, Einaudi, 1977 ), p. 53. From now on P: u. LP.

 • Colui che maneggia oggetti letterari è coinvolto in una situazione di provocazione

• Colui che maneggia oggetti letterari è coinvolto in una situazione di provocazione linguistica. Irretito, irrigato, immerso in una trama di orbite verbali, sollecitato da segnali, formule, invocazioni, puri suoni ansiosi di una collocazione, abbagliato e ustionato da fulminei, erratici percorsi di parole, voyeur e cerimoniere, egli è chiamato a dar testimonianza sul linguaggio che gli compete, che lo ha scelto, l’unico in cui gli sia tollerabile esistere; unica condizione stabile e reale, sebbene affatto irreale e impermanente; unica esistenza, anzi, riconoscendosi lo scrittore nient’altro che un’arguzia del linguaggio stesso, una sua invenzione, forse i suoi genitali ectoplastici. [. . . ] Con il linguaggio, definitivo e illusorio, instabile ed aggressivo, deve costruire un oggetto la cui compatta, dura perfezione chiuda una dinamica ambiguità. [. . . ] Egli ha l’oscura sensazione che quell’ambiguo essere che egli ha dato alla luce con la calliditas corporale e l’eroica nescienza delle madri, venga stuprato da ogni volontà di capire quel che vuol dire. E sebbene sappia di averlo destinato allo stupro fin dall’inizio, il pensiero che si voglia spiegare 'che cosa vuol dire' lo riempie di istintivo orrore. • Giorgio Manganelli, La Letteratura come Menzogna ( Milan, Adelphi, 1985 ), pp. 220 -21. From now on LLCM.

 • Perché la letteratura non esiste. Solo esistono le storie. Le quali, prima

• Perché la letteratura non esiste. Solo esistono le storie. Le quali, prima di venire raccontate • accadono • e storie sono quando accadono • e non quando piú o meno casualmente vengono raccontate. • Ed infine di scoprire che, raccontate o meno, esse non possono prescindere dalla vita, • o perlomeno da quell’unica cosa che della vita noi sappiamo, • e cioè che essa va vissuta, • e che nulla vi può sopperire ( LFP, pp. 48 -49 ). •

 • Il romanziere contemporaneo non vuol far credere affatto al lettore di non

• Il romanziere contemporaneo non vuol far credere affatto al lettore di non esistere ( o di rimanere al di sopra delle nubi a limarsi le unghie ) e di non stare scrivendo un romanzo: al contrario vuole che proprio questo suo fare in atto, in sviluppo hic et nunc, costituisca un elemento del romanzo, non meno del fare contemporaneo del lettore, cioè della sua lettura integratrice. (. . . ) Proprio nel costringere il lettore a rinunciare all’enunciato convenzionale per cui egli non si trova davanti a un 'romanzo' ossia a una fiction, e invece a confrontarsi con il fatto che qualcosa si sta facendo narrativamente secondo un grado di realtà particolare determinato dallo scontro autore-lettore, il romanzo moderno offre a chi legge un’esperienza diretta e non sostitutoria: quella meramente emozionale, finora elargita 'per interposto personaggio', si fonde all’esperienza critica della collaborazione attimo per attimo all’essere del romanzo in quanto rapporto, e così raggiunge un suo più complesso soddisfacimento di pulsione. • Nella sua qualità, assai spuria, di 'farsi', quasi un acting-out, il romanzo è piuttosto un sintomo che un reperimento di certezze; congettura, ma con un margine di intenzionalità. La sua apertura, il suo non finito sono un gesto della vita, un rifiuto del concluso come funzione ottimale del classico; non il rifiuto, al limite, di un sistema o direzione anch’essi congetturali. In questo modo il romanzo appare una 'formazione' del mondo in cui si esplica e ne proietta l’eventuale crisi senza ipotizzare nessun superamento ma restando aperto alla possibilità di esso. Se andasse più in là, non compirebbe già una prevaricazione? Conta che non si presenti come uno spettacolo o una distrazione/consolazione, ma una storiografia. • • Giuliano Gramigna, La Menzogna del Romanzo ( Milan, Garzanti, 1980 ), pp. 32 -33.

D’ARRIGO HORCYNUS ORCA • Horcynus Orca è un lungo poema di metamorfosi dentro una

D’ARRIGO HORCYNUS ORCA • Horcynus Orca è un lungo poema di metamorfosi dentro una storia che si sviluppa in pochi giorni. • E’ la storia del marinaio 'Ndrja che torna a casa dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale: ‘Ma forse anche questo era segno che la guerra aveva mischiato, nei soldati come in lui, il bianco col nero, il vero col falso, il sostanziale con l'apparente, il pratico con l'ideale, il desiderio col bisogno, la nostalgia col possesso, il passato col futuro, lo sbarbatello col vecchio’ ( HO, p. 61). • Un viaggio dalla Calabria alla Sicily, che diventa un’odissea : • • 'Ndrja Cambrì vedeva così la notte, una notte doppiamente tenebrosa, per oscuramento di guerra e difetto di luna, rovesciarsi fra lui e quell'ultimo passo di poche miglia marine che gli restava da fare, per giungere al termine del suo viaggio: che era Cariddi, una quarantina di case a testaditenaglia dietro lo sperone, in quella nuvolaglia nera, visavì con Scilla sulla linea dei due mari ( HO, p. 16 ).

 • Nel viaggio, attraverso metamorfosi, incontri, simboli, visioni, sogni, "Ndrja sperimenta la morte

• Nel viaggio, attraverso metamorfosi, incontri, simboli, visioni, sogni, "Ndrja sperimenta la morte e le anticipazioni della morte, che è simboleggiata dall'orca, fino alla fine del libro in cui" Ndrja muore. D'Arrigo è bravissimo a intersecare i due piani narrativi: la dimensione realistica e quella visionaria, quella evocativa e onirica: Era come se il sonno gli fosse pigliato da solo metà mente, e metà mente invece non gli riusciva d'impossessarsene; ed era come se in quella metà mente sognasse e con questa vivesse, sicché, pure facendo tutte e due le cose, non ne facesse davvero nessuna delle due, né tutto sognava né tutto viveva, ma fece una cosa sola di tutte e due, un di più e di meno: sognava, come si dice, a occhi aperti (HO, p. 172). 'Ndrja compie un doppio viaggio, uno reale che lo porterà a casa e uno interno che lo porterà alla maturità. Horcynus Orca è un romanzo che è già un classico del romanzo italiano contemporaneo, e ci sono numerosi modi di leggerlo, infinite meta-letture possibili Le metamorfosi che D'Arrigo inserisce nel romanzo hanno l'intenzione di estendere il ritmo e portare il lettore nel 'mondo interiore di Ndrja: • Dall'aria che aveva in faccia, si sarebbe detto che dalla sua mente riguardasse quella sua bellezza del corpo, né più né meno, come una nuvoletta che stava sopra e ci giocasse quasi un fargli ombra, ora coprendolo, ora scoprendolo, ora fingendo di inseguirlo, ora di farsi inseguire. Era una impressione immediata, netta e insieme oscura, che si riceveva al primo sguardo: nell'ombra molle, sottomarina del giardino, sembrava di vederla come specchiata in un'acqua, sembrava non di vedere lei, col suo sguardo sano, reale, ma la sua immagine riflessa fuori di sé, svagatamente, nei suoi stessi occhi, come un pensiero cadutole di mente (HO, p. 27).

 • Le metamorfosi riguardano non solo 'Ndrja, ma anche gli altri personaggi e

• Le metamorfosi riguardano non solo 'Ndrja, ma anche gli altri personaggi e in realtà l'intero romanzo è un inno alla metamorfosi: In quel momento, la bella senza senno riapparve sotto gli alberelli: si era sciolte le trecce e i capelli ora gli incorniciavano il viso che usciva dall'ombra più pallida ancora del suo naturale. S'appoggiò con le spalle a uno degli alberelli, che non era più alto di lei, e poi diventerà uno di quei tronchetti e parve che rami e fronde e bottoncini spuntassero da lei, dalla sua testa, dalle sue braccia e spalle (HO , p. 42). In alcune parti del libro, D'Arrigo sembra indicare che le metamorfosi sono un prodotto della mente, di una mente pazza: 'perché la mente pazza, è cosa notoria, è compresa fra tutte le menti, che a decifrarla manda un suono di verità, dolce o terribile, come di cuore divino, qualcosa che fa trattenere il respiro e non si sa mai spiegare, dire '(HO, p. 41). Questo è molto importante perché dimostra che D'Arrigo ha capito la lezione contemporanea: sembra che ogni metamorfosi porti una trasformazione esterna come prodotto della mente e ciò significa che metamorfosi è un'altra parola per alterità. Quando 'Ndrja o altri personaggi vedono se stessi o qualcun altro in una prospettiva diversa, semplicemente riconoscono l'alterità di queste persone, cioè che non sono come pensano di essere o come sono visti, ma possono essere qualcuno o qualcosa altro. Ad esempio, la metamorfosi del suono nel passaggio seguente indica "la relazione di Ndrja con Ciccina Circe" (una donna che ha incontrato prima della traversata); nella sua barca ha una campana per tenere lontano gli squali. Per "Ndrja la campana diventa il mezzo attraverso il quale ricorderà e considererà Ciccina Circe" come un altro: Gli occhi di mare, le miglia addirittura, le fere e il mare frusciante sotto di esse, sempre più fino e oscuro, sempre più confuso al silenzio della notte. Poi, sopra il silenzio, sentì solo il dindin della campanella, quel tintinnio d'unghia sull'orlo del bicchiere; e lo sentì ancora, anche quando quel bicchiere sembrò riempirsi d'acqua come deve contenere tutta l'immagine del mare. E poi lo sentì ancora, anche quando intorno a lui, per aria, sul mare, nella notte, gli diventò inafferrabili ai sensi: lo sentì ancora e continuò un sentirlo, ovvero immaginare di sentirlo, nel suo orecchio,

 • Un altro aspetto importante è il linguaggio. Horcynus Orca è un pastiche

• Un altro aspetto importante è il linguaggio. Horcynus Orca è un pastiche linguistico come in Joyce ( in Finnegans Wake ) or Céline ( in Mort à Crédit ). Il linguaggio cambia e trasforma l’ortografia delle parole come se le parole stesse fossero soggette ad una metamrfosi: • Strada facendo, a quella prima, grossa avvisaglia femminota, se ne erano aggiunte altre, alcune a sola conferma: c'è ferribò? Nisba ferribò; e altre, ad aggravio: velieri, chiatte, caicchi, lance, barche in una parola, barche, almeno, se ne trovano? nisba barche. Nisbarche nisb'arche. In una parola: a mano se lo potevano fare, il trasbordo ( HO, pp. 71 -72 ). • 'Bar. . . cabar. . . a. . . ' [. . . ] 'Baara' [. . . ] come se anche prima, sillabando 'Barcabarca' non avesse fatto altro, in effetti, che sillabare, evocare, invocare, scafarsi la bara dentro la barca ( HO, p. 1122 ). • Il linguaggio è nche una reinterpretazione ludica della realtà per creare metasignificati e un approccio ironico sul mondo: • Solo questo, sempre questo: Aci mio. . . Aci reale mio. . . lei, e: Galatea. . . Gala a te. . . lui, ed era come si passassero e ripassassero, sempre uno stesso garofano lei a lui, sempre una stessa rosa lui a lei (HO, p. 461). • Sono quelle razze di fame che contempo, nello stesso corpo, sono quelle razze di manna e fame e manna si chiamano, con un solo nome: famanna, e il corpo che le figlia è quello della fera. Per queste sponde, per questo scill'e cariddi, quando soffiano le ventate pestilenziali di quella razza di fame, è la fera, la madre matrasta, il madrone di fame che fa torcere le visceri, ed è lei stessa, la fera, la manna, lei unica e sola, la fera, questa e quella una cosa e il suo contrario, fame viva, manna morta: famanna, ruttata fresca o ammosciata vecchia ( HO, pp. 300 -301 ). • La ricchezza di latinismi, anglicismi, francesismi è incredibile: • ‘visavi’ ( vis-à-vis ), ‘ferribò’ ( ferry-boat ), ‘focu meo’ ( fuoco mio ), ‘defaglianza’ ( defaillance ), ‘jotto’ ( yacht ). • Il linguaggio viene usato anche come espressione di appartenenza e identità dove per esempio la parola ‘ciciro’ usata per indicare la sicilianità crea un comico pastiche: • • ‘Dici ciciro, gli dicono, e lui dice ciciro. E quelli: no, gli dicono, sisiro, si dice. Tu siciliano? Tu nix siciliano. Tu francise. Ciciro francise, tu francise. Sisiro, si dice. Sasà che fa? Ride e s'azzarda a dire: la guerra, forse, la ridusse a babele la Sicilia ? Un tale franciaspagna faceste a cannonate, eccellentissimi’ ( HO, p. 79 ).

 • La parola diventa il simbolo del romanzo. Conoscere la lingua significa avere

• La parola diventa il simbolo del romanzo. Conoscere la lingua significa avere potere. Quando il signor Monanin, l'unico personaggio istruito del romanzo, cerca di spiegare alla popolazione locale come catturare l'orca, secondo il suo metodo scientifico, trova una mancanza di comprensione perché la sua lingua è diversa dalla loro: Per Monanin, la lingua è un mezzo realistico per nominare le cose; per loro è uno strumento dell'immaginazione: "I siciliani, diceva, travagliavano di fantasia, i siciliani: lui, no, era realistico, lui" (HO, p. 250). Per i siciliani, la parola è ancora un tabù: "Non ne posso più di tenersi in bocca quella cosa proibita che diventò la parola" (HO, p. 449). Si sentono più a loro agio in assenza di parole o piuttosto nell'usare il loro esclusivo codice linguistico fatto delle loro storie e credenze arcane: Era un arcano, non si discuteva, non per loro, però: non li toccava, non passava per la loro vita, come non passava in realtà lei, l'inglese, né in bene né in maschio. A loro, gli sono stati applicati da una favola che non li riguardava al reale, nei loro stretti bisogni di vita, ma li riguardava da soli all'immaginario, come se fosse una storia di magare in forma di angolazione e di un professore in forma di folletto che per tornare professore era stato condannato a cercare, fra milioni e milioni di altre, le uova di quelle anguille (HO, p. 168). Con la questione della lingua, D’Arrigo si dedica completamente al regionalismo. In effetti, la diffidenza che la popolazione di quella terra prova per la lingua, che è vista come il simbolo della natura, è il segno del loro atteggiamento regionalistico. Queste persone hanno paura del potere del linguaggio perché lo vedono come una minaccia contro la loro visione sicura del mondo. Non vogliono che la lingua sconvolga le loro convinzioni. D'Arrigo dipinge molto bene questo aspetto e crea il suo bozzetto regionalistico definendo con precisione l'atteggiamento di queste persone. Solo la tradizione orale è importante e rilevante per loro: "E lei insiste a mettere sempre avanti la parola. [. . . ] Ma perché lei per una volta non fa la prova a mettere avanti l'animale, lo mette all'opera e poi gli mette il nome? [. . . ] A noi [. . . ] la parola ci serve solo per intenderci. [. . . ] Non è che la parola ci serve per spiegare la fera, perché la fera ce la spieghiamo con le sue azioni o per meglio dire, con le sue malazioni ( HO, p. 243 ). • • Ma cosa è sta lingua che dici, cosa è sta lingua che parli, la lingua forse che ha in bocca quella vostra fera là? Quella, se è quella, è vostra, hai ragione, quella solo, voi la parlate la lingua di quella là, e voi soli la parlate e voi soli la intendete ( HO, p. 247 ). • ‘Per un poco stette a decantare l'impresa memorabile delle femminote come se poi avesse dovuto passare col piattino, e davvero, nell'infervoramento, pigliò l'inchiavatura del cantastorie, che la fa sempre tragica e ci mette accenti pomposi, come se gli venissero dal cuore’ (HO, p. 129).

 • Neanche l'educazione può cambiare questo atteggiamento, né il forte sentimento su cui

• Neanche l'educazione può cambiare questo atteggiamento, né il forte sentimento su cui si basa la credenza popolare: Visto cogli occhi, tu dici. Eh, caro, le sirene non c'era uno che non aveva visto cogli occhi suoi, ed erano voci che correvano, no? fantasticherie, invenzioni di marinai. Queste fere che voi dite, tanto terribili e selvagge, chi può dire che non sono pure queste, voci fantasie, o come si vogliono dire, immaginazioni e credenze, eh? Non potenzialmente appartenere alla stessa razza inesistente di quelle sirene, eh? queste vostre fere, non potrebbero essere solo la parola, il nome, essere, insomma, solo parole, nomi, falsi nomi, non essere altri che gli innocenti delfini, calunniati e malfamati? (HO, p. 244). Per quanto riguarda i Greci, il linguaggio è mito e non uno strumento razionale per nominare le cose né un utile mezzo di comunicazione. Per queste persone, la funzione principale del linguaggio è raccontare storie da tramandare per creare e trasmettere il mito. La loro visione del mondo è permeata dal mito. "Vivono" il mito e nel loro caso il mito non è una metafora per il mondo intero ma solo il riflesso e l'identità della propria piccola realtà: • Quando i pellisquadre ripetevano che c'era un passato fra loro e quelle, quando si vantavano di conoscersi reciproci, non facevano caso che nello stesso momento, in quelle stesse parole, quel passato tornava presente, il futuro era già quello che chiamavano passato e stava, fra loro e quelle, come presente. Il passato, insomma, era il prezzo che pagavano per possederla, averne scienza: ma la fera era, è come una credenza che non finivano mai di pagare. E difatti, quando il pellesquadre scende di barca perché si fece vecchio e lo mettono e levano mattina e sera davanti alla porta, come per asciugarsi dalla salsedine che gli incorporò in tanti anni e che gli trasuda dalla pelle in un velo di sale, non saprebbe mai dire quanto di quella credenza fu pagata e quanto ancora resta da pagare: perché, con la fera, in effetti, ricominciano sempre da zero, come se una nuova credenza s'accavalli sulla vecchia ( HO, p. 316 ).

 • • Oppure il linguaggio è usato per simboleggiare la realtà rituale in

• • Oppure il linguaggio è usato per simboleggiare la realtà rituale in cui vivono ed è solo la loro. Questo è anche un segno di regionalismo in D’Arrigo, in quanto la ritualità diventa espressione di un gruppo specifico e definito di persone: • Veniva a questo punto il quadro, se non più tragico, più impressionante di tutti, un altro di quei quadri che sembravano venire a pennello, per suo padre, fatti proprio su misura, come una testa col suo cappello, da sembrare quasi che considerando tutte invenzioni sue, del cantastorie, se però mente umana necessaria inventare mai quadri più inventati di quelli che inventa la realtà della vita (HO, p. 560). In D'Arrigo, mentre un concetto e una parola sono espressi, c'è sempre qualcosa che sembra andare oltre la pagina. Le parole sembrano vivere oltre i loro soliti e comuni confini; si allargano, si deformano, si moltiplicano all'infinito. D'Arrigo sente e costruisce nuovi significati, per coniare nuove parole che definiranno l'identità di chi parla: es. 'pellisquadre', 'nonnavi', 'flaccomodo', 'basso', 'mare', 'sfantasiamento', 'incoffariamento', 'alliffamento', 'scasamento', 'rivivibellionamento', 'incazzatoria', 'allertamento', 'strabilia ', ' brublu ', ' carneficesalvatore '. Le immagini e i concetti si ripetono all'infinito e alla fine perdono il loro significato originale; ecco perché non può esserci comunicazione. Il simbolismo nasce da lì. In effetti, se la comunicazione è bloccata, le persone devono andare oltre la lingua e trovare, nel simbolo, un mezzo di espressione. È come tornare al passato. I popoli primitivi usavano i simboli per definire la realtà e comunicare (e la comunità rappresentata da D’Arrigo sembra molto primitiva). In epoche successive, i popoli primitivi svilupparono un linguaggio che rese possibile la comunicazione tra esseri umani. Ma era un'illusione, perché i romanzi contemporanei dicono che la lingua non è perfetta per la comunicazione: in realtà, la lingua non corrisponde interamente a una realtà definita. Pertanto, si deve tornare al simbolo e nel suo libro, D’Arrigo mostra esattamente questo: • • E io ora, qua, minoranza maggioranza, fu come se già decisi, decisi quello che mi successe, succede dentro, dentro la mente, dentro gli occhi, che è come se parola che mi passò o non mi passò don Luigi, era quello che era destinato, che ero destinato che mi succedeva a me: perché è come se quell'arca lasca, losca, fu destino che l'allascai, nel modo che dovevo, nel modo per cui ora mi pare che mi fa come un groppo in gola e mi soffoca se non la dico, se non la sputo, subitissimo, ecco: orca, orcarca. Sicché, ora, veniva a transigere, transigeva con se stesso, con gli altri, transigeva con la vita e la morte, transigeva, perché per lui si rivelava impresa impossibile, tormento e pena, fare il padrefamiglia, decidere cosa è bene e cosa è male per gli altri, decidere ed agire in conseguenza, decidere che il male, alla finfine, è scegliere la morte contro la vita, che è così corta e passeggera, e non così triste, così miseranda, la vita che si passa sopra una barca, un'arca, dentro una bara, varo su varo. La barca della vita si scopre sempre più arca, sempre più bara che va incontro alla morte, la

 • La metamorfosi dipende dal linguaggio e viceversa perché ognuno dà il ritmo

• La metamorfosi dipende dal linguaggio e viceversa perché ognuno dà il ritmo e la forza per trasformare l'altro. In questa tecnica c'è l'idea di essere come uno stato di flusso continuo e Horcynus Orca è uno stato di flusso eterno perché la metamorfosi cambia continuamente la sua natura. C'è un costante movimento del linguaggio che deforma la realtà e penetra nei personaggi dando loro la possibilità di vivere la loro mitologia e dando anche all'autore la possibilità di passare da un registro stilistico all'altro. È così che D'Arrigo può mettere insieme diversi aspetti della realtà. Prima di tutto, c'è molto spazio dedicato ai sogni e in realtà ogni volta che 'Ndrja si avvicina a un nuovo stadio della sua odissea, entra e sublima la realtà attraverso un sogno: ' Non sappiamo dire se questo pensiero gli era abbandonato fuori, da sveglio e l'aveva portato con sé dentro il sonno, o se l'era venisse dentro, dormendo, spiando fuori di laddèntro '(HO, p. 654). In secondo luogo, ovviamente, c'è il realismo, che rimane il principale approccio stilistico di D'Arrigo, nonostante l'enorme ruolo svolto dalla metamorfosi. Il realismo è visto come il legame tra queste persone e gli eventi della loro vita. Devono avere un approccio realistico per superare le loro paure; ecco perché, per esempio, rifiutano l'intrusione di una lingua diversa, come ho mostrato prima. Tutto deve essere reale o realistico per loro e solo in questo modo possono accedere al mondo: 'La scena di Federico, che mostra il rotolo di vaccinazione ulcerata, e di lui che gli sta davanti, pigliava agli occhi della sua mente un senso che non era solo quello che aveva nella realtà, ma quello più quell'altro, che come è notorio, ogni scena della vita tiene sotto velame, e raro a rari manifesta, e che sarebbe il senso della verità massima '(HO, pp. 617 -18). Infine, c'è il mito, che è l'altro aspetto della realtà. Hanno bisogno del mito, specialmente del loro mito, perché quando la realtà non può essere definita o è mutevole, possono trovare rifugio nel loro simbolismo: 'Femminote e fere, nei caratteri, in tutto, si trattavano, le une con le altre, come si meritavano , forse era vero in quello che sosteneva Mimì Nastasi, che era intrinseche e c'era lo stesso sangue, perché discendevano tutte e due, per gradi, dalle sirene '(HO, p. 153). La lingua è quindi il filo conduttore di tutti questi diversi universi che in Horcynus Orca trovano il loro equilibrio. Alla fine, non c'è tempo o spazio, tutto è un suggerimento collettivo o una visione, come quando Caitaniello pensa di vedere l'orca: • • Non era infatti la visione di un becco di fera smorfiosa e sfottente, collocata come in un tronetto al centro di una tavola? Non era un trionfo di fera, una trionfera? E il senso di questa visione era forse difficile da leggere agli occhi di un cariddoto, anche se si trattava di un cariddoto analfabeta come lui? Il senso, a senso suo, era che se andavano avanti di quel passo, ogni famiglia di Cariddi, finiva che banchettavano con la morte al centro della tavola, la morte in sembiante di fera, come quei militi della Dicat, scelti per campioni, scelti forse per dare ai cariddoti un senso più triste e infamante della morte che li attendeva. Eh, non era questo forse il senso di quella visione mortifera, ovverosia a morti e fera? ( HO, pp. 564 -65 ). •

 • In questo passaggio successivo, si vede questa capacità di collegare perfettamente i

• In questo passaggio successivo, si vede questa capacità di collegare perfettamente i due mondi, il reale e il mondo dei sogni, come se Ndrja fosse divisa in due: Il fatto era che il suo sonno e lui giocavano a ladro e carabinieri perché, non appena lui s'immedesimava in qualche cosa e gli accadeva come una visione davanti agli occhi, quello, quatto, subito gli guadava la sua polverina alloppiante sugli occhi: magari solo un pizzico, una spolveratina, poca per levarlo tutto di coscienza, bastevole però un tenerlo come incantato sopra quelle visioni che gli ultimi o rinvenivano in mente come per caso, per una ispirazione di tempo lontano e una suggestione di luogo vicino, per un sentore de rena vulcanica, per causa dentro e fuori di lui. Sogno, ma forse no, poteva sicuramente dirsi. Sogno, ma forse no, dava bene l'idea di quel suo sogno fatto con un occhio aperto e l'altro chiuso (HO, pp. 187 -88). In effetti, 'Ndrja, oltre a sperimentare il vero viaggio che lo porta a casa dove può incontrare di nuovo suo padre, il suo amante, il suo popolo, sta vivendo un viaggio nella sua coscienza attraverso l'esistenza e la morale. È il personaggio che vuole rimanere fedele a se stesso; sa quanto è diversa la vita al di fuori della comunità e sperimenta il disagio di trovarsi tra due mondi spinti da due forze. Viaggia verso la maturità che non è altro che l'equilibrio tra realtà e simbolismo. Nel suo viaggio 'Ndrja è una meteora ingoiata dalla morte. Con lui muore un mondo: Ma non solo quella, bensì tutte le lingue, di tutti i sentimenti e di tutti i sensi fisici, sembrava che fossero morte per lui da qualche momento. I ricordi ei desideri che l'aveano assaltato, si allontanavano da lui come il sole dalla terra, [. . . ] come una linea di silenzio e di cose morte, naufragate, [. . . ] dove questo mare qui si curvava su se stesso per tutta la sua estensione, come se lì finisse e un altro e profondo mare, un maremorto, di acque come cristalli, cominciasse da lì (HO, p. 132). L'uso insistente delle parole "Sogno ma forse no" in questo passaggio, ricorda Sogno ma forse no che è il titolo di uno dei drammi di Pirandello.

Per simbolizzare il flusso di coscienza di 'Ndrja D'Arrigo sceglie ovviamente il mare con

Per simbolizzare il flusso di coscienza di 'Ndrja D'Arrigo sceglie ovviamente il mare con il suo andare e venire come un suo stato filosofico permanente. Il mare è una presenza costante nel romanzo e scorre insieme ai pensieri del personaggio per dettarne il ritmo, l’intensità e il dolore: • E intanto guardava fisso il mare: un punto solo, ma come se in quel punto il mare si raccogliesse tutto nel suo occhio. Perché, il mare sembra veramente essere tutto in ogni suo punto, se si guarda come lo guardava il vecchio in quel momento, col chiaro, profondo occhio, rigonfio di tutte le lagrime che possono riempire un occhio e l'occhio trattenere e mai versare, di tutte le lagrime di cui è capace l'animo umano quando è veramente felice e quando è veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa più che cosa precisamente sia l'una e che cosa sia l'altra, se si può credere di provarle, sentirle e vederle confuse insieme, indecifrabilmente, in un occhio che fissa un punto del mare al tramonto e si fa rigonfio di lagrime, rigonfio di tutto il mare di lagrime che guarda ( HO, p. 142 -43 ). • Dal mare arriva la creatura che è l’altro personaggio importante del romanzo: l’orca. L’orca è IL simbolo per definizione nell’immaginario collettivo di queste persone. Tre simboli in particolare: • 1) La morte: ‘Orcynùs, sarebbe a dire, che come vi dissi, significa quello che dà la morte, la Morte in una parola’ ( HO, p. 776 ). 2) L’immortalità: ‘Sì, è immortale: c'è dubbio? si dicevano sulla barca. È aldilà sia di bene, sia di male, è, fu e sarà, lo stato in cui si trova non è di vita e non sarà mai di morte, perciò nello spettacolo che offre, tutti ci può essere fuorché dolore’ ( HO, p. 751 ). 3) Metafora del fascismo: ‘Ora, pigliamo l'orcaferone e mettiamolo al posto di Mussolini’ ( HO, p. 821 ). • Tutti e tre i simboli sono collegati e in realtà significano la stessa cosa. Se si fa una metafora delle metafore, si può immaginare che le caratteristiche della morte e dell'immortalità nell'orca rappresentino la paura e la speranza nella mente di D'Arrigo teme la morte di un mondo arcano e primitivo, quasi immaginario, e teme che questo mondo scompaia a causa di una comunità che si rivolta contro i suoi miti. Nelle pagine 775 -76 sembra che la comunità abbia perso il contatto con la realtà. Pensano che l'orca sia falsa, che non sia quella che il loro mito ha creato. Il mito ha creato un'orca immortale, che non può mai morire e quando i pescatori uccidono l'orca, sono delusi perché il mito non ha previsto la sua morte. Questo sembra paradossale, ma non lo è: la morte dell'orca rappresenta la fine di un'era. Ecco perché D'Arrigo ne fa il simbolo dell'immortalità: spera che questo mondo non scompaia mai. In altre parole, quando i pescatori combattono contro l'orca, combattono contro se stessi, contro la loro tradizione e il loro mito, che è sul punto di scomparire. La questione della lotta e della scomparsa introduce il terzo simbolo: il fascismo. Infatti, chiamando tutti gli uomini della comunità a combattere nella guerra (e probabilmente a morire), la dittatura fascista semplicemente li ruba alle loro famiglie e ferma il popolo della terra da un rimpiazzo generazionale che significa la fine della comunità arcana. L'orca è il riflesso di queste persone, è lo specchio che dovrebbero guardare, per capire che il loro mondo fatto di miti, simboli, paure, rituali, superstizioni, sta per scomparire. Horcynus Orca disegna perfettamente questa comunità arcana e primitiva che ha la propria lingua, non vive attraverso le parole ma attraverso le cose, ha una tradizione orale, non sa nulla di altri mondi o culture, simboleggiati nel romanzo dal delfino. Può solo sperimentare l'illusione, la disperazione, la necessità di vivere. Può affrontare solo il male. Horcynus Orca è il romanzo di questa comunità. D'Arrigo voleva fare uno studio antropologico ed etnico di un gruppo di persone che stanno scomparendo. La comunità ha una struttura piramidale con indiscussa autorità sulla vetta: il padre, e 'Il viaggio di Ndrja è anche verso suo padre che non riesce nemmeno a riconoscerlo: ‘"Faticavo di meno" mormorò masticando amaro. "Faticavo di meno se effettivamente non ero suo figlio"’ ( HO, p. 490 )

 • Attorno a questa piramide, il mondo si è fermato per sempre, la

• Attorno a questa piramide, il mondo si è fermato per sempre, la comunità vive al di fuori della realtà, in un passato remoto, immobile, silenzioso e abbandonato. È un piccolo gruppo inconsapevole messo a parte, che vive con la sua magia e mostri. Niente può toccarli tranne se stessi; non c'è assolutamente alcuna conoscenza; c'è piuttosto un'oscurità e un silenzio supremi nelle loro menti, ma ciò che temono è proprio al loro interno. La comunità è ben rappresentata nel romanzo e D'Arrigo è bravo a creare diverse tipologie. La comunità si basa su tre gruppi principali. Ci sono gli "spiaggiatori", ex pescatori che portano dentro sia la tristezza di non essere più pescatori (il che significa che hanno perso il loro rapporto speciale con il mare) sia la miseria della vita. Sono persone che, dopo molte lotte contro il mare, hanno capito l'impossibilità di vincere contro le forze della natura. Sono i più saggi di questa comunità, salvano e continuano la tradizione, trasmettono l'identità mitica e storica del gruppo. Ma la loro identità individuale è fatta con solitudine e silenzio che sono in definitiva le due lezioni apprese dal mare che è sempre silenzioso e solo. Ci sono poi le "femminote". Si potrebbe pensare che vivendo in una comunità così arcaica e piccola, le"femminote" siano obbligate a una vita servile. Non è affatto così. Sono in realtà il simbolo della vita e dell'indipendenza. Sono la celebrazione della natura e della magia e in realtà, nel libro, sono sempre visti vivere al mare o in una foresta: Infine, ci sono i "pellisquadre", i pescatori. Rappresentano novità, forza, sopravvivenza, speranza, continuazione della tradizione. Alla fine, mantengono il desiderio arcano e mitico di vincere l'eterna lotta contro il mare. La filosofia della loro vita è ben descritta nel brano finale che, sebbene si riferisca agli "spiaggiatori", è indicativo di tutta la comunità: • È la solitudine che il mare gli scava intorno, cancellando viavia all'orecchio e alla mente ogni altro rumore del mondo dentro il suo, che viene e va, rotola e copre tutto come un tuono di silenzio: è questo isolamento, anche se nel momento che si avvistano, e ancora lontani si vengono incontro per le plaie assolate, che gli mette in corpo come un sospetto, un batticuore, un senso di paura come all'avvicinarsi di un nemico, spinge poi i due spiaggiatori, appena scambiata qualche parola, quasi a gettarsi le braccia al collo. Questo successe sempre in tempo di pace, e figurarsi in tempo di guerra ( HO, pp. 93 -94 ). • Col suo senso pratico, spratico, il vecchio gli parlava della divozione femminota come di un giardino di tesori che era sotto un incantesimo che lui doveva rompere, con porte e passaggi da aprirsi a lusinghe e sciabolate, rischi e arcani di femminone nude, in apparenza di draghesse e serpentesse, da vincere e svelare: e le parole mammalucchine che doveva dire senza sbagliare, e le prove di forza e di valore che doveva dare con la sua arma naturale, e questo e quello, e quando questo, quando quello (HO, pp. 139 -140). • Quelli sono pellisquadre, caro mio, e il nome dice tutto. Lo sapete voi che significa pellisquadre? Significa che hanno la pelle come quella dello squadro, che sarebbe il verdone, ovverossia il pescecane, e squadro ci sta per squadrare, una pelle insomma come la cartavetrata, quella che serve ai falegnami per ripulire tavoli e compensati dalle lische, pareggiandole e allisciandole come un velluto, per poi impellicciarle e lucidarle. Pelli, insomma, come la cartavetrata, ma più che pelli, caratteri ( HO, p. 307 ). • Si era posato nel tramonto, in quel momento di verità della sua vita, perché per nessuno, come per uno spiaggiatore, il tramonto sembra cadere ogni volta non solo sul giorno breve di ore, ma su quello lungo della vita. E per lo spiaggiatore dev'essere ogni volta come trovarsi in punto di morte e ricordarsi del tempo vissuto e rivedere tutta la propria vita, come se il mare gliela rovesci, ondata su ondata, lì davanti, sulla riva, anni e anni, fra scoppi di spume che durano attimi. E non ha con chi parlarne e dev'essere questo il morire dello spiaggiatore: cancellato dal mondo come le sue stesse impronte di piede su cui sbava il mare, sperso per l'eternità nel silenzio tonante del mare. E quando, per