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L’ipotesi La nostra ipotesi interpretativa è fondata sull’idea che i cambiamenti politici intervenuti a

L’ipotesi La nostra ipotesi interpretativa è fondata sull’idea che i cambiamenti politici intervenuti a partire dalla metà degli anni 2000 in varie zone del mondo (ex-Unione Sovietica, nord-Africa, Medio Oriente), possano farsi risalire alla natura delle élite che se ne sono rese protagoniste. In particolare il focus sarà rivolto all’area post-sovietica, in primis Russia e Ucraina, i cui più recenti sviluppi denotano esiti politici molto divergenti. In conclusione si farà un cenno alle élites di due paesi post-sovietici di altre due regioni: Turkmenistan e Azerbaijan, di grande rilievo nella nuova geopolitica energetica.

La transizione post-sovietica L’ultimo giorno di vita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fu il

La transizione post-sovietica L’ultimo giorno di vita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fu il 31 dicembre 1991. Dal 1° gennaio 1992 le 15 repubbliche sovietiche divennero stati indipendenti. Tre avvenimenti del 1991 connotarono la fine dell’URSS e gli sviluppi immediatamente successivi: 1. Il Referendum sull’Unione del 17 marzo 1991; 2. Il golpe del 19 -21 agosto 1991; 3. Il referendum sull’indipendenza dell’Ucraina dell’ 1 dicembre 1991.

Il Referendum sull’Unione del 17 marzo 1991 Molte Repubbliche federate dell’URSS, già dalla fine

Il Referendum sull’Unione del 17 marzo 1991 Molte Repubbliche federate dell’URSS, già dalla fine degli anni ‘ 80, avevano manifestato istanze autonomistiche e indipendentistiche; in alcuni casi erano state approvate, in ambito di Soviet repubblicani, Dichiarazioni di Sovranità. L’ultimo tentativo per tenere in vita l’URSS, sebbene su basi rinnovate, fu esperito tramite il Referendum del 17 marzo 1991. Il quesito referendario recitava come segue: “Considera necessario il mantenimento dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche come federazione rinnovata di repubbliche uguali e sovrane, in cui i diritti e le libertà degli individui di ogni nazionalità siano pienamente garantiti? ”. Il Referendum ottenne il 76. 4% di consensi su base federale ma, nonostante ciò, fu boicottato e manipolato in numerose repubbliche. Solo quattro repubbliche indissero la consultazione referendaria sulla base del quesito approvato dal parlamento sovietico (Bielorussia, Tajikistan, Turkmenistan, Azerbaijan) clicca qui Il crescente consenso popolare di cui godeva il Presidente della Russia Boris Eltsin, di contro alle difficoltà in cui si dibatteva il Presidente dell’URSS Mikhail Gorbachev, contribuirono ad accelerare il processo di scioglimento dell’Unione.

Il golpe del 19 -21 agosto 1991 Il secondo evento detonatore dell’implosione dell’URSS fu

Il golpe del 19 -21 agosto 1991 Il secondo evento detonatore dell’implosione dell’URSS fu il fallito golpe dell’agosto 1991 inscenato contro il Presidente Gorbachev. Il 29 luglio, in una riunione tra Gorbachev, Eltsin e Nazarbaev (Presidente del Soviet Supremo del Kazakhstan), fu fissata la data della firma del nuovo Trattato dell’Unione, il 20 agosto. Il 4 agosto Gorbachev decise di recarsi a Foros in Crimea per un breve periodo di vacanza; il rientro a Mosca era previsto il 19 agosto. Il 19 agosto avvenne la costituzione del Comitato per lo stato d’emergenza composto di otto membri, tra cui il Vicepresidente dell’URSS Yanaev, e tale organismo assumeva la guida del paese essendo Gorbachev “nell’incapacità, per ragioni di salute, di svolgere le proprie funzioni”, allo scopo di rimettere ordine nel paese e di prevenire la disintegrazione dell’Unione. Eltsin con un ukaz (editto) ordinò ai russi di disobbedire agli ordini illegali del Comitato per lo stato d’emergenza. Il Comitato per lo stato d’emergenza perse, a poco, tutti i suoi principali membri i quali, dopo due giorni, si recarono da Gorbachev per farsi perdonare. Il 21 agosto Gorbachev e moglie poterono tornare a Mosca, i golpisti furono arrestati.

1 dicembre 1991: l’indipendenza dell’Ucraina Il terzo fattore determinante per la fine dell’URSS fu

1 dicembre 1991: l’indipendenza dell’Ucraina Il terzo fattore determinante per la fine dell’URSS fu l’atteggiamento assunto, sul finire del 1991, dall’Ucraina nei confronti della rinnovata Unione federale. Lo scontro sull’assetto istituzionale da dare all’Unione si svolse, a partire da novembre 1991, nell’ambito del Consiglio di Stato: il Presidente sovietico Gorbachev si ostinava a rivendicare uno stato federale mentre il Presidente russo Eltsin sosteneva l’ipotesi di una Confederazione. Mentre pareva essersi trovata una soluzione di compromesso, basata comunque sull’edificazione di un nuovo stato sovranazionale, il Presidente del Soviet supremo ucraino Leonid Kravchuk vedi rilanciò la posta in gioco, proponendo la nascita di una Comunità di Stati indipendenti. L’ipotesi di dar vita a un’entità sovranazionale senza la partecipazione dell’Ucraina, seconda repubblica sovietica per popolazione e per rilevanza politica, convinse Eltsin ad addivenire alla richiesta di Kravchuk e a proporre, in occasione del Consiglio di Stato del 25 novembre, la nascita della Comunità di Stati indipendenti. Il 1° dicembre 1991 in Ucraina fu indetto un referendum sull’indipendenza nazionale, contestualmente all’elezione del primo Presidente della Repubblica: l’esito, abbastanza scontato del referendum, vide trionfare, con più del 90% dei consensi, l’istanza indipendentista.

La transizione post-sovietica: l’analisi Dal punto di vista interpretativo, la transizione nello spazio post-sovietico

La transizione post-sovietica: l’analisi Dal punto di vista interpretativo, la transizione nello spazio post-sovietico può essere collegata alle seguenti sette variabili esplicative: 1. Le eredità politiche; 2. Il grado di modernizzazione; 3. La vicinanza all’Europa occidentale; 4. La disponibilità di risorse naturali; 5. La collocazione dei comunisti al potere dopo le prime elezioni; 6. Le riforme economiche; 7. Grado di forza del Parlamento.

La transizione post-sovietica: gli esiti L’ 8 dicembre 1991, i tre presidenti slavi (Eltsin,

La transizione post-sovietica: gli esiti L’ 8 dicembre 1991, i tre presidenti slavi (Eltsin, Kravchuk e Shushkevich) si incontrarono nella foresta di Belovezh, al confine tra Bielorussia e Polonia, dove fu sottoscritto un documento, da sottoporre successivamente ai presidenti delle altre ex-repubbliche e all’approvazione dei rispettivi parlamenti, in cui si sanciva la fine dell’URSS in qualità di soggetto di diritto internazionale e di realtà geopolitica, e fu fondata al suo posto una Comunità di Stati indipendenti (CSI) alla quale i nuovi stati erano invitati ad aderire. I primi parlamenti che approvarono l’accordo furono quelli di Ucraina e Bielorussia, seguiti da tutti gli altri, ad eccezione dei tre stati baltici e della Georgia. L’URSS cessò di esistere formalmente alla mezzanotte del 31 dicembre 1991.

I regimi nello spazio post-sovietico La distribuzione dei regimi politici post-sovietici Democrazie difettose Autocrazie

I regimi nello spazio post-sovietico La distribuzione dei regimi politici post-sovietici Democrazie difettose Autocrazie Estonia Georgia Armenia Lettonia Moldova Azerbaijan Lituania Ucraina Belarus Kazakhstan Kyrgyzstan Russia Tajikistan Turkmenistan Uzbekistan

Le “rivoluzioni colorate”: caratteristiche Dal 2000 al 2005, una serie di proteste popolari, denominate

Le “rivoluzioni colorate”: caratteristiche Dal 2000 al 2005, una serie di proteste popolari, denominate “rivoluzioni colorate” vedi, spazzarono via i regimi autoritari e semi-autoritari in Serbia, Georgia, Ucraina e Kyrgyzstan. In questi casi, la scintilla che scatenò le proteste, generalmente pacifiche, fu il tentativo, da parte dei leader autoritari, di falsificare a proprio favore i risultati elettorali. Anche in altri stati euro-asiatici ebbero luogo movimenti popolari simili a quelli che caratterizzarono le “rivoluzioni colorate” (proteste pacifiche, rivendicazioni popolari di democrazia, il ricorso al monitoraggio elettorale) ma senza successo: è il caso di Russia, Belarus, Azerbaijan, e di alcuni stati dell’Asia centrale. Va precisato che per “rivoluzioni colorate” di successo si intende la rimozione dal potere di leadership illiberali o autoritarie attraverso mezzi non-violenti e/o democratici (tendenzialmente la sconfitta degli uscenti a seguito di tornate elettorali organizzate sotto la pressione della protesta popolare). Mappa delle “rivoluzioni colorate”

Le “rivoluzioni colorate”: cause L’analisi dei fattori scatenanti delle “rivoluzioni colorate” è strettamente collegata

Le “rivoluzioni colorate”: cause L’analisi dei fattori scatenanti delle “rivoluzioni colorate” è strettamente collegata alle cause del mancato generalizzato successo di tali movimenti in tutto lo spazio post-sovietico. L’elenco delle “precondizioni” che favoriscono il successo delle “rivoluzioni colorate” viene prevalentemente individuato in sette punti: la presenza di un regime semi-autocratico; un leader in carica impopolare; un’opposizione unita e coesa; la possibilità e la capacità di denunciare pubblicamente le frodi elettorali; media indipendenti; la capacità dell’opposizione di mobilitare masse popolari; le divisioni all’interno delle forze di sicurezza del regime. La causa più frequentemente addotta dagli studiosi nel giustificare la non-rivoluzione è stata il ricorso, da parte di molti leaders autoritari, a politiche tendenti a scongiurare e prevenire il verificarsi dei fenomeni di mobilitazione popolare. Per quanto concerne l’individuazione delle precondizioni del mancato verificarsi delle “rivoluzioni colorate”, vi è una versione strutturalista declinata in 3 punti: 1. la presenza di un partito al potere coeso tenuto insieme da una tradizione rivoluzionaria o da una solida ideologia; 2. un apparato coercitivo forte e ben retribuito; 3. un controllo discrezionale da parte dello stato sull’economia.

La “rivoluzione delle rose” Nei giorni che seguirono le elezioni tenutesi a Tbilisi il

La “rivoluzione delle rose” Nei giorni che seguirono le elezioni tenutesi a Tbilisi il 2 novembre 2003, migliaia di persone protestarono davanti il Consiglio cittadino e il Parlamento, contro le presunte manipolazioni del voto a favore del fronte elettorale del Presidente in carica Eduard Shevardnadze vedi. A capo della protesta vi fu il principale oppositore, Mikheil Saak’ashvili vedi. Anche le principali organizzazioni che si occupano di monitoraggio elettorale (OSCE, Consiglio d’Europa, Governo USA, Parlamento Europeo) rilevarono profonde irregolarità nel voto georgiano. Dopo ben diciotto giorni dallo svolgimento delle elezioni, la Commissione Elettorale Centrale comunicò i risultati ufficiali: il Blocco di Shevarnadze, insieme al Partito Revival di Abashidze, furono proclamati vincitori. Il 22 novembre, Shevarnadze aprì la sessione inaugurale del Parlamento ma centinaia di sostenitori dell’opposizione fecero irruzione nell’edificio, non bloccati dalla forze di polizia e il giorno successivo rassegnò le dimissioni. Il 4 gennaio 2004 vi fu l’elezione di Saa’kashvili alla Presidenza della Repubblica con il 96 per cento dei consensi. Senza dubbio, l’azione e i finanziamenti di alcune organizzazioni straniere, in particolare USAID e la Fondazione Soros, furono di stimolo per la riattivazione della società civile georgiana. Mikheil Saak’ashvili

La “rivoluzione arancione” in Ucraina non fu un fulmine a ciel sereno ma si

La “rivoluzione arancione” in Ucraina non fu un fulmine a ciel sereno ma si inserì in un contesto di profondo malcontento popolare nei confronti del regime del Presidente Kuchma vedi. Il ballottaggio delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004, in base ai sondaggi della vigilia, avrebbe decretato l’elezione di Viktor Yushchenko vedi, leader delle opposizioni e filooccidentale, con il 54% dei voti; al contrario, la Commissione Elettorale Centrale dichiarò Viktor Yanukovych vedi, filo-russo, vincitore con il 49, 42% dei consensi, contro il 46, 69% di Yushchenko non accettò la sconfitta, accusò l’avversario di brogli ed invitò i suoi sostenitori a manifestare finché non fosse riconosciuta la sua vittoria: a Kiev, il 22 novembre, 100 mila persone si radunarono nel centro della città per manifestare in favore di Yushchenko. Dopo dieci giorni di mobilitazione, il 3 dicembre la Corte Suprema dichiarò non validi i risultati del ballottaggio ed ordinò la ripetizione del solo ballottaggio il 26 dicembre. I dati della Commissione elettorale centrale non lasciarono margini a contestazioni: Yushchenko si aggiudicò il 52, 45% dei consensi, mentre Yanukovych si fermò al 43, 77%. Questa volta nessuna irregolarità venne rilevata dagli oltre 12. 000 osservatori internazionali.

La “rivoluzione dei tulipani” in Kyrgyzstan presenta degli aspetti originali rispetto alle due già

La “rivoluzione dei tulipani” in Kyrgyzstan presenta degli aspetti originali rispetto alle due già descritte per il contesto e la cultura politica. Gli avvenimenti del marzo 2005 posero fine al lungo dominio del Presidente Askar Akaev vedi, in carica dal 1991. Consolidando il suo potere, Akaev rafforzò una cerchia di suoi fedelissimi, soprattutto provenienti dalla regione settentrionale del paese, più russificata e integrata negli schemi di organizzazione politico-sociale dell’era sovietica; la parte meridionale continuava a essere piuttosto tradizionale e a base religiosa. Le elezioni parlamentari del febbraio 2005 furono le più competitive della storia del paese. Akaev decise, il 23 marzo, dopo una serie di rimozioni ai vertici degli apparati di sicurezza, di passare alla forza, operando azioni di polizia contro alcuni esponenti dell’opposizione. La protesta si espanse e si registrarono molte defezioni da parte delle forze di sicurezza che, in numero crescente, passarono a sostegno dell’opposizione. Il 24 marzo, nella capitale Bishkek, si svolse una grande manifestazione contro il regime di Akaev; i manifestanti fecero irruzione nell’edificio presidenziale e occuparono la sede della televisione. Akaev e la sua famiglia si diedero alla fuga. Kurmanbek Bakiev vedi fu proclamato presidente ad interim.

I tentativi non riusciti (I) In altri stati post-sovietici, le mobilitazioni popolari della metà

I tentativi non riusciti (I) In altri stati post-sovietici, le mobilitazioni popolari della metà degli anni ‘ 2000 non hanno determinato alcun ricambio a livello di élite. In Russia, Putin è riuscito a neutralizzare i possibili fattori di rischio di diffusione delle rivoluzioni colorate: le ONG con legami, politici e finanziari, con l’occidente; le organizzazioni, interne e internazionali, di monitoraggio elettorale, in primis l’OSCE; i gruppi giovanili di protesta anti-governativa, anche mediante la mobilitazione di gruppi di giovani pro-regime. Questa azione di neutralizzazione, esercitata con strumenti autoritari sia all’interno del paese, sia nei confronti di altri territori di diretto interesse per la Russia, mise al sicuro Putin in occasione delle elezioni parlamentari del dicembre 2007 e di quelle presidenziali del marzo 2008, e riuscì a prevenire grandi sconvolgimenti in prossimità delle elezioni parlamentari del 2011 e presidenziali del 2012.

I tentativi non riusciti (II) In Belarus, una forma di protesta popolare si ebbe

I tentativi non riusciti (II) In Belarus, una forma di protesta popolare si ebbe con l’allestimento di una tendopoli sulla Piazza d’Ottobre a Minsk, ad opera di circa 20 mila giovani che protestavano contro la conduzione delle elezioni presidenziali del 2006; si parlò della “rivoluzione dei jeans”, che ebbe, però, un esito negativo in quanto fu repressa dall’intervento della polizia. In Azerbaijan, le proteste popolari verificatesi dopo le elezioni parlamentari del novembre 2005 furono facilmente represse dal regime: quindi, ogni tentativo di dar vita, come in Georgia e Ucraina, a una qualche forma di rivoluzione colorata, fallì, anche perché fu scelto il momento sbagliato. Per quanto concerne l’area dell’Asia centrale post-sovietica, va sottolineato l’alto livello di pervasività e di capillare controllo sociale esercitato dalle élites al potere nei confronti della società e del sistema politico, aspetti poco favorevoli allo svilupparsi e al successo delle “rivoluzioni colorate”. Il Presidente della Belarus Aleksandr Lukashenko

I tentativi non riusciti (III) Una tesi più legata a un approccio comportamentista esercitato

I tentativi non riusciti (III) Una tesi più legata a un approccio comportamentista esercitato dai leaders al potere al fine di prevenire eventuali mobilitazioni popolari, si articola in 3 specifici interventi: 1. attacchi rivolti contro le opposizioni e la società civile; 2. il cambiamento delle regole del gioco a tutela e vantaggio del gruppo al potere; 3. la manipolazione dell’immagine e della memoria, in negativo, delle opposizioni. O, ancora, le strategie “preventive” dei regimi autoritari si estrinsecano in cinque modalità: 1. Isolamento (delle ONG straniere sgradite al regime); 2. Marginalizzazione (delle opposizioni, attraverso meccanismi tecnici e legislativi); 3. Distribuzione (di risorse a favore di organizzazioni pro-regime); 4. Repressione (sotto forma di sanzioni nei confronti delle forze anti-regime); 5. Persuasione (nei confronti dell’opinione pubblica circa la natura anti-nazionale delle forze di opposizione internazionale). Nel nostro caso, le nuove élites hanno dimostrato di governare nelle stesse modalità di quelle precedenti, con l’unica differenza, soprattutto nel caso di Ucraina e Georgia, di un orientamento più marcatamente occidentale. A fronte di legittimazione e propaganda di stampo democratico, gli esiti si sono rivelati di grande continuità con il precedente regime autocratico. La leader “arancione” Yulia Tymoshenko

La teoria delle élites si propone di spiegare scientificamente una delle tendenze indiscutibili della

La teoria delle élites si propone di spiegare scientificamente una delle tendenze indiscutibili della storia umana: il fatto che, in ogni società e in ogni epoca, una frazione numericamente ristretta di persone concentra nelle proprie mani la maggior quantità di risorse esistenti - ricchezza, potere e onori - e s'impone alla quasi totalità della popolazione vedi. I più noti teorici delle élites, i cosiddetti “classici”, sono: Gaetano Mosca (1858 -1941), Vilfredo Pareto (1848 -1923) e Roberto Michels (1876 -1936). Dopo una rapida rassegna dei maggiori contributi teorici degli elitisti, si passerà a interpretare, in termini elitistici, alcune recenti fenomenologie politiche.

I classici: Gaetano Mosca La prima opera di Gaetano Mosca è del 1884, Sulla

I classici: Gaetano Mosca La prima opera di Gaetano Mosca è del 1884, Sulla teoria dei governi e sul governo parlamentare, nel quale viene delineata l’idea centrale degli elitisti cioè che inevitabilmente “una minoranza organizzata, la quale agisce sempre coordinatamente, trionfa sempre sopra una maggioranza disorganizzata”. Mosca definisce tale minoranza organizzata come “classe politica” e le varie forme di governo non rappresentano altro che i principi in base ai quali coloro che detengono il potere lo legittimano e lo esercitano. Chi è al potere non ammetterà mai di esercitarlo in quanto classe più adatta a governare ma tradurrà sempre la giustificazione del suo potere in una formula astratta. La democrazia, secondo Mosca, è un’illusione perché non è possibile concepire, nei fatti, il governo di tutti: anche nella democrazia, dunque, ci sarà una minoranza numerica che esplicherà effettivamente l’azione di governo. Mosca ha progressivamente un’apertura verso la democrazia: egli propende per un sistema misto nell’ambito del quale non prevalga né l’elemento autocratico, né quello aristocratico, né quello democratico. Mosca vede con preoccupazione la concessione del suffragio agli strati più incolti della popolazione e ripone le sue speranze nella classe media, nei suoi valori di moderazione, esperienza, istruzione.

I classici: Vilfredo Pareto Il suo pensiero lo ritroviamo tutto nella sua opera Trattato

I classici: Vilfredo Pareto Il suo pensiero lo ritroviamo tutto nella sua opera Trattato di sociologia generale, del 1916. Il suo modello è l’homo economicus, cioè l’uomo che agisce in termini razionali per il raggiungimento dell’utilità economica intesa in senso individualistico. Con il tempo, però, egli si convinse che non si può dare una spiegazione esauriente dell’attività umana in termini economici: si rivolse pertanto alla sociologia. La concezione antropologica di Pareto può essere così riassunta: gli uomini sono per lo più mossi da impulsi emotivi, non razionali, (i residui) ma essi non riconoscono questa base non razionale delle loro azioni e mascherano tali azioni dando a esse spiegazioni pseudo-razionali (le derivazioni). Egli afferma che per ogni ramo dell’attività umana vi è una “classe eletta” costituita dagli elementi oggettivamente migliori in tale attività; e lo strato inferiore (la classe non eletta). Le classi elette non costituiscono entità statiche (circolazione delle élites) nel senso che all’inizio, effettivamente, la classe eletta è costituita da coloro che hanno più doti per governare ma questa loro forza si perde con il tempo mentre, contemporaneamente, nella classe inferiore si formano nuove energie: si verranno così a formare nuove aristocrazie in un processo ininterrotto.

I classici: Roberto Michels Nella sua opera più famosa, La sociologia del partito politico

I classici: Roberto Michels Nella sua opera più famosa, La sociologia del partito politico (1911), centrale è l’idea elitistica della necessità di una minoranza organizzata mentre marxismo, socialismo, democrazia e partecipazione diretta delle masse al potere, sono i suoi costanti bersagli. Michels afferma che le masse sono deboli e in quanto tali non possono conservare il potere; per farlo, è necessario che si organizzino ma ciò comporta uno stravolgimento nella loro struttura. Ogni organizzazione politica, sia essa un partito o un sindacato, ha bisogno di una struttura, di personale specializzato e ciò comporta, inevitabilmente, una selezione per la formazione di tale personale e l’impossibilità da parte della massa in quanto tale di esercitare un potere diretto. Si crea dunque un’organizzazione gerarchica nell’ambito della quale è possibile che, all’inizio, il capo governi come “servitore delle masse” ma presto saranno le masse a essere sottomesse al gruppo minoritario organizzato. E’ questa la legge di ferro dell’oligarchia. Tale principio ha trovato, in effetti più conferme che smentite, ed è anche vero quanto affermato da Michels e cioè che questo fenomeno si riscontra anche nelle democrazie e all’interno dei regimi che si rifanno al marxismo.

I contemporanei/1 Nel corso del ‘ 900 si sono affermati studi sulle élites più

I contemporanei/1 Nel corso del ‘ 900 si sono affermati studi sulle élites più strettamente di taglio empirico. Nel famoso libro L'élite del potere, del 1956, Charles Wright Mills vedi sostiene che negli Stati Uniti la politica è dominata da una ristretta e potente élite formata dalle persone che presiedono le maggiori organizzazioni: la burocrazia pubblica, le grandi corporations e le forze armate. Il capitalismo avanzato esige che si prendano decisioni fortemente coordinate e di ampia portata, quindi i dirigenti delle grandi organizzazioni sono costantemente in contatto e spesso assumono in modo informale decisioni di rilievo politico e sociale. Secondo Robert Alan Dahl vedi autore di Who governs? su New Haven, capitale del Connecticut, il potere a livello locale è diffuso su una pluralità di élite piuttosto che concentrato in un’unica oligarchia compatta al potere. Dahl rompe il dogma elitista sostenendo che non si può e non si deve sovrapporre la ricchezza materiale ed il potere economico ed il peso politico. Dahl analizza tre settori di policy che assumono un rilievo centrale nella vita pubblica di New Haven, per individuare le persone che contano di più.

I contemporanei/2 Dahl segue due procedure: posizionale, vale a dire che isola il ceto

I contemporanei/2 Dahl segue due procedure: posizionale, vale a dire che isola il ceto politico dal res to delle élite cittadine, individuando persone che hanno ricoperto incarichi pubblici a livello comunitario (eletti e responsabili di partito); decisionale riferendosi alle decisioni e alle procedure che effettivamente sono seguite nelle politiche pubbliche a livello cittadino. Un altro importante studio sull’élite al potere fu svolto da Floyd Hunter vedi su Atlanta (Community Power Structure, 1953). Il potere locale, secondo Hunter, consiste nel rapporto strutturale tra gruppi di individui (controllati e controllori) in base alle gerarchie economiche presenti a livello nazionale e locale che si mantengono relativamente stabili grazie al controllo di alcune risorse (ricchezza, status, prestigio). Hunter usa il metodo reputazionale, basato sulla centralità del parere dei giudici (persone con una profonda conoscenza delle dinamiche interne alla comunità) in merito alle vigenti relazioni di potere. Il potere rilevato dalla ricerca è un potere presunto e non effettivo, troppo condizionato da arbitrarietà e pregiudizi.

Centralità delle élites nell’analisi politica Le centralità del ruolo delle élites è sottolineata, in

Centralità delle élites nell’analisi politica Le centralità del ruolo delle élites è sottolineata, in maniera specifica, dai tre “padri fondatori” della transitologia: nelle loro opere emerge ancora, quale variabile irrinunciabile, l’importanza del ruolo delle élite. In Transitions from Authoritarian Rule si parla, oltre che degli eventi inaspettati (fortuna), anche di virtù, ossia dei talenti dei leader politici nel realizzare un certo risultato politico. Ne La terza ondata, invece, si sostiene che le condizioni sono necessarie affinché si instauri una democrazia, ma che l’attività dei leader è ugualmente indispensabile e quasi preminente. Secondo Fukuyama, ciò che incide davvero nei destini di un paese è la presenza di una deliberata volontà politica, di statisti di valore. I più accreditati studi sui processi di democratizzazione mettono un accento importante sulla decisività dell’azione e del comportamento delle élites. Grilli di Cortona sottolinea l’importanza delle dinamiche messe in atto dalle élites nella spiegazione delle difficoltà incontrate in molti processi di transizione democratica; in maniera ancora più esplicita si considera il fattore legato alle élites tra le eredità del precedente regime in grado di condizionare i percorsi successivi di cambiamento.

Le élites nei paesi ex-comunisti La centralità delle élites è richiamata come fattore determinante

Le élites nei paesi ex-comunisti La centralità delle élites è richiamata come fattore determinante nella spiegazione dei processi di cambiamento politico verificatisi in molteplici aree geopolitiche e, in particolare, nei paesi ex-comunisti dell’Europa orientale e dell’ex-URSS. Il ruolo delle élites è rilevante nell’interpretazione di diversi aspetti e caratteri del cambiamento: rilevante è il modello di relazione tra vecchie e nuove élites; importante è il processo di selezione delle élites nella fase del cambiamento; meno approfondito e analizzato, ma non per questo meno dirimente, l’atteggiamento psicologico e il background delle élites al potere. Gli esiti che si sono determinati dall’incontro/scontro tra le vecchie e le nuove élites variano da paese. Nei paesi in cui i partiti comunisti si sono riformati gradualmente, essi condivisero il cambiamento sistemico e furono coinvolti nel processo di riforma come un qualsiasi partner politico. In alcuni paesi le élites comuniste riuscirono a mantenersi al potere persino dopo le prime elezioni democratiche: esse riuscirono a conservare ruoli cruciali nel sistema sociale. Molto è dipeso dall’atteggiamento delle nuove élites nei confronti della vecchia nomenklatura.

Il sistema della nomenklatura Nei circa settanta anni di regime sovietico, si sono succedute

Il sistema della nomenklatura Nei circa settanta anni di regime sovietico, si sono succedute varie fasi nelle modalità di reclutamento e selezione delle élites, tutte rientranti nello schema della “politica di tipo comunista”. Il meccanismo più diffuso fu quello della nomenklatura. Il sistema sovietico della nomenklatura prevedeva una lista di posizioni di ambito nazionale, la cui nomina era di spettanza del Comitato Centrale del PCUS (il Politburo e il Segretariato del Comitato Centrale del PCUS, che costituivano l’esecutivo politico); il personale di vertice dell’apparato del Comitato Centrale (in effetti, l’amministrazione nazionale); i principali primi segretari regionali del partito, i primi ministri e altri membri di vertice del governo; i più importanti membri dei servizi di sicurezza e dell’esercito; i vertici del corpo diplomatico; i leader delle organizzazioni giovanili, culturali e dei sindacati. Il sistema della nomenklatura sovietica era molto gerarchizzato: tutte le posizioni, così come determinato durante l’era di Stalin, erano collocate in quattordici distinti livelli. Al livello apicale vi era il Segretario Generale del Comitato Centrale del PCUS, seguito dai membri del Politburo, dai membri candidati del Politburo e dai Segretari del Comitato Centrale.

Modalità di reclutamento delle élites Nella fase successiva alla fine dell’URSS si sono consolidati

Modalità di reclutamento delle élites Nella fase successiva alla fine dell’URSS si sono consolidati due modelli speculari di reclutamento delle élites: il modello burocratico-razionale (Weber vedi) e il modello patron-client. Il modello burocratico è caratterizzato da un reclutamento delle élites depersonalizzato e basato sulla competenza, avulso da altri criteri quali la consanguineità, le relazioni etniche o la corruzione. Il potere politico feudale era basato sulla fusione di potere e proprietà, mentre il modello burocratico è segnato dalla distinzione tra il management economico e quello politico. Il modello feudale potrebbe essere definito anche “oligarchico” nell’ottica della coincidenza tra potere e proprietà. La sterminata estensione del territorio sovietico rendeva difficile l’applicazione del modello burocratico-razionale su regioni dal passato fortemente connotato in senso clientelare, familistico, nepotistico, in senso antimodernizzatore. Nel corso del XIX e XX secolo si assistette a tentativi di modernizzazione atti a sradicare i principi tradizionali di organizzazione sociale. Con la fine dell’URSS, molti settori della popolazione ricaddero in uno stato di de-modernizzazione e ritradizionalizzazione su larga scala, di cui portano la diretta responsabilità le élites degli stati post-sovietici.

La nostra ipotesi/1 La nostra ipotesi analitica si ricollega, seppur vagamente, al seguente approccio:

La nostra ipotesi/1 La nostra ipotesi analitica si ricollega, seppur vagamente, al seguente approccio: il “chi” decide non è affatto indifferente in merito al “cosa” si decide e al “come” si decide. Si intende verificare quanto incida la matrice originaria delle élites al potere nei vari paesi postcomunisti, e in particolare in quelli dell’area post-sovietica, nell’interpretazione e spiegazione dei diversi percorsi politici di volta intrapresi. Significa rimettere al centro dell’analisi politologica lo studio delle élites ma, in questo caso, avvalendosi di un approccio più tipicamente sistemico e comportamentistico: le caratteristiche principali e la tipologia di attori presenti nella “scatola nera” di Easton possono determinare il tipo di output che il sistema politico produce, nonché il feedback, in termini di consenso, che la società politica tende ad attivare. La nostra ipotesi si basa su una variabile indipendente rappresentata dalla matrice originaria (estrazione socio-professionale, livello di socializzazione politica, percorsi di carriera politica) delle élites al potere; la variabile dipendente è costituita da una corrispondente forma della politica, dalle scelte politiche intraprese dalle élites al potere, in grado di contribuire ai percorsi di cambiamento propri di ciascun sistema politico.

La nostra ipotesi/2 In linea generale si possono distinguere due tipologie di élites: quelle

La nostra ipotesi/2 In linea generale si possono distinguere due tipologie di élites: quelle economico-finanziarie e quelle politico -amministrative. Le élites economico-finanziarie, nate e affermatesi soprattutto negli Stati Uniti d’America, hanno assunto, con l’incalzare della globalizzazione, una crescente dimensione transnazionale. Le élites politico-amministrative sono prevalentemente legate a disegni e progetti politici di ambito europeo: l’esperimento sovietico e la socialdemocrazia. Con il 1989, e la immediatamente successiva fine dell’URSS, le élites politiche, anche in Europa, sono diventate del tutto subalterne a quelle economico-finanziarie e sempre più mostrano difficoltà nel riemergere. In base alla nostra ipotesi, le élites economico-finanziarie e le élites politico-amministrative sarebbero portatrici di visioni e modalità del fare politica differenti tra loro: nel primo caso avremmo un approccio tecnocratico, una gestione manageriale delle politiche pubbliche finalizzata ad assecondare interessi particolaristici sulla base dei rapporti di forza stimolati dalla competizione e dalle leggi di mercato; nel secondo caso ci troveremmo di fronte a comportamenti politici ispirati ai criteri della rappresentanza e della mediazione, dell’inclusione e della partecipazione, a beneficio dell’intero sistema sociale.

I casi di studio Ci si può chiedere, nel contesto dei cambiamenti politici avvenuti

I casi di studio Ci si può chiedere, nel contesto dei cambiamenti politici avvenuti nella metà degli anni ‘ 2000 in alcuni stati post -sovietici: cosa sarebbe successo se ai vertici dello stato e della politica vi fossero state élites prevalentemente politico-amministrative invece che economico-finanziarie? Il successo o il fallimento delle “rivoluzioni colorate” verificatesi, o tentate, in alcuni stati dell’area post-sovietica, possono essere, in parte, spiegati in base alla differente composizione delle élites al potere? Si procederà ad analizzare la composizione e la matrice delle élites al potere nei due principali stati post-sovietici, Russia e Ucraina: nel primo caso, i fermenti popolari e le manifestazioni di dissenso verificatesi intorno alla metà degli anni ‘ 2000 non hanno avuto alcun esito politico, non hanno determinato alcun reale cambiamento; nel secondo caso, alla fine del 2004 ha avuto luogo la più nota delle “rivoluzioni colorate”, la cd. “rivoluzione arancione” che determinò un processo di cambiamento, seppur di breve durata; e, più di recente, nella prima parte del 2014, gli eventi meglio conosciuti come la protesta di «Maidan» , hanno accentuato alcuni fenomeni, già attivati dalla «rivoluzione arancione» . I due casi di studio, molto diversi tra loro per quanto concerne dimensioni territoriali, popolazione e condizioni economiche e geopolitiche, hanno evidenziato un percorso politico post-sovietico, a partire dagli anni ’ 2000, chiaramente divergente.

Le élites russe/1 Il periodo di presidenza di Eltsin in Russia (1991 -1998) si

Le élites russe/1 Il periodo di presidenza di Eltsin in Russia (1991 -1998) si può porre in continuità con l’era sovietica del periodo brezhneviano: qualche autore ha adottato la definizione di neo-feudalesimo per riferirsi all’era Eltsin. Si venne a consolidare un rapporto di collusione tra economia e politica già propria dell’era sovietica con le company towns e degli accordi sull’economia extra-piano. Attori centrali di tali dinamiche erano, da un lato, gli oligarchi, i rappresentanti della nomenklatura economica che erano riusciti a beneficiare delle privatizzazioni eltsiniane; dall’altro, i baroni, i governatori regionali sempre più benevoli nei confronti degli oligarchi in termini di concessioni e in cambio di sostegno politico. Si consolidò una rete informale di potere fatta di localismo e connivenze trasversali d’interessi. Con le riforme degli anni ’ 90 volute da Eltsin, la relativamente omogenea burocrazia si trasformò in un’associazione di clan economici e politici che aspiravano ad assumere le decisioni politiche più rilevanti. Nel corso di tali riforme, il ruolo delle élites economiche nel decision-making politico crebbe notevolmente. Il modello di reclutamento delle élites di tipo burocratico fu sostituito da uno di tipo oligarchico, si determinò una quasi feudalizzazione della Russia.

Le élites russe/2 La maggior parte degli autori mette in evidenza una chiara discontinuità

Le élites russe/2 La maggior parte degli autori mette in evidenza una chiara discontinuità tra la politica di reclutamento delle élites operata da Eltsin e quella avviata dal suo successore Putin, in virtù della centralità che nell’era Putin hanno assunto i cosiddetti “siloviki”. La parola “siloviki” deriva dall’espressione “silovye struktury” (strutture di forza), in riferimento alle forze armate, ai corpi di esecuzione delle leggi, alle agenzie di intelligence che hanno il monopolio della coercizione statale. I siloviki, pertanto, sono più accomunati dal punto di vista della visione e degli interessi, piuttosto che del background. Trattansi di persone che lavorano o che lavoravano per i ministeri della “coercizione” autorizzati a ricorrere alla forza in nome dello stato. Si contano circa ventidue agenzie di tale tipo in Russia oggi: la più famosa è la FSB (Federal Security Service), l’ex KGB. Sono comunque corpi separati dai civili, con specifiche caratteristiche, motivazioni e mentalità. Essi portano armi e hanno una serie di privilegi sociali. Dall’avvento di Putin ai vertici dello stato, essi hanno acquisito una notevole centralità: circa il 77% delle 1016 posizioni di governo sono occupate da persone con un background nella sicurezza.

Le élites russe/3 S’individuerebbero due opposti clan in lotta tra loro all’interno del Cremlino:

Le élites russe/3 S’individuerebbero due opposti clan in lotta tra loro all’interno del Cremlino: i siloviki (Putin) e i liberali (Medvedev vedi) I due gruppi si contrappongono in merito alla propria concezione della politica economica, estera e interna ed hanno, spesso, un ruolo di diretta partecipazione nella gestione di settori dell’economia russa. Convinti entrambi della necessità per la Russia di ripristinare un sistema verticale di potere esecutivo, i liberali in economia sostengono l’opportunità di instaurare un più consistente grado di libertà imprenditoriale, mentre i siloviki considerano la privatizzazione una ferita inferta agli interessi nazionali russi e sostengono il ritorno del controllo statale nei settori strategici dell’economia, in primo luogo in quello energetico. Si è proceduto alla classificazione di una serie di profili di èlites russe a partire dai primi anni ‘ 2000, ossia dall’avvento al potere di Vladimir Putin. La nostra attenzione si è concentrata in primo luogo sulla composizione dell’Amministrazione Presidenziale, nonché sui principali esponenti dei Gabinetti ministeriali succedutisi dal 2000 ad oggi. Per ciascun profilo analizzato, i criteri classificatori sono stati: a) Appartenenza all’apparato statale-amministrativo; b) I profili esterni; c) L’ambito territoriale di provenienza.

Le élites ucraine/1 Nei 25 anni intercorsi dalla proclamazione dell’indipendenza nazionale, l’Ucraina ha visto

Le élites ucraine/1 Nei 25 anni intercorsi dalla proclamazione dell’indipendenza nazionale, l’Ucraina ha visto succedersi 6 Presidenti della Repubblica e 21 governi: un percorso molto articolato che è andato dalla fase di Leonid Kuchma segnata da dinamiche di interpenetrazione tra élites economiche ed élites politiche, allo schema dello “stato ibrido” che combina elementi di autoritarismo e di democrazia, attraverso una breve stagione di attivismo della società civile coincisa con la “rivoluzione arancione”. Nel decennio di potere di Kuchma si andarono consolidando dei processi che avevano fatto la loro comparsa già a partire dalla fase tardo-sovietica: con varie espressioni (dicasterialismo, localismo, rapporti patron-client) si sono indicati fenomeni che avevano come fattore comune la stretta connivenza tra élites politiche, soprattutto a livello regionale, ed élites economiche sempre più autonome e sganciate dalle “quote” dei piani. Nell’Ucraina post-sovietica, in particolare durante l’era Kuchma, si era venuto a creare un sistema di gruppi, clan e oligarchie che, organizzati in cartelli in funzione collusiva, gestivano il potere statale con finalità di mantenimento dello status quo. Si trattava di un sistema oligarchico basato su canali di patronage e legato alla maggiore o minore vicinanza al Presidente.

Le élites ucraine/2 La rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina è stata il risultato

Le élites ucraine/2 La rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina è stata il risultato di un conflitto tra élites e della reazione della società civile nei confronti del governo autoritario di Kuchma. Il suo esito, comunque, è stato il frutto di un patto tra le élites che diede voce alla possibilità di risoluzione del conflitto mediante l’introduzione di cambiamenti del sistema politico: il patto costituzionale del dicembre 2004 che non riuscì a produrre i suoi effetti. L’intenzione di Kuchma, allo scadere del suo secondo mandato, di dar vita a un trasferimento di potere guidato non trovò l’accordo di un segmento di élites che si era raccolto intorno a Viktor Yushchenko vedi il quale ottenne il supporto dello schieramento politico riformista e nazionalista riunitosi nel Blocco Nasha Ukraina. Tra i suoi alleati vi erano molti profili già coinvolti nella vita istituzionale del paese, tra cui Yulia Tymoshenko vedi leader dell’omonimo blocco. La “rivoluzione arancione” del 2004 portò al potere il filooccidentale Yushchenko; in ogni caso, i governi arancioni (2005 -2010) si sono rivelati inefficaci. Le élites politiche ed economiche ucraine non volevano la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona e, quindi, anche durante la “fase arancione” continuarono i conflitti tra le élites e i clan.

Le élites ucraine/3 La situazione di caos e conflittualità propria dei governi arancioni facilitò

Le élites ucraine/3 La situazione di caos e conflittualità propria dei governi arancioni facilitò il ritorno sulle scene di Viktor Yanukovych il quale operò una marcia indietro rispetto al compromesso costituzionale raggiunto nel dicembre 2004, che aveva limitato i poteri della presidenza, ripristinando il modello costituzionale voluto da Kuchma. Si può concludere che la Rivoluzione arancione non ha portato all’istituzione di un sistema democratico di checks and balances. Avendo il controllo diretto del governo, del parlamento e del giudiziario, si può dire che Yanukovych abbia esercitato un livello di potere superiore persino a Kuchma. L’opposizione in Ucraina era piuttosto frammentata. La Tymoshenko, prima dei guai giudiziari e della reclusione, ha sofferto molto la sconfitta del 2010, dovuta probabilmente alle sua ambiguità e ammiccamenti con il Partito delle Regioni che non sono stati ben visti dall’elettorato arancione. Con la vittoria nel 2010 di Yanukovych, l’Ucraina iniziò a dirigersi verso un modello di autoritarismo soft. Anche Freedom House lo ha rilevato declassando il paese nel 2010 a “parzialmente libero”. La competizione tra sottogruppi di èlites è sempre più al centro della dinamica socio-politica in Ucraina.

Le élites post-Maidan/1 I più recenti eventi politici in Ucraina, originatisi dalla mancata firma,

Le élites post-Maidan/1 I più recenti eventi politici in Ucraina, originatisi dalla mancata firma, alla fine del novembre 2013 dell’Accordo di Associazione all’UE da parte del deposto Presidente Yanukovych, e le successive proteste di piazza inizialmente filo-UE, insediarono un esecutivo provvisorio molto eterogeneo. Vi facevano parte esponenti del partito di Yulia Tymoshenko Batkivshchyna, del partito nazionalista di estrema destra Svoboda, del gruppo paramilitare Pravyi Sektor. Alla guida dell’esecutivo vi era l’avvocato 39 enne Arseniy Yatsenyuk, braccio destro della Tymoshenko, già Ministro degli Esteri e dell’Economia in precedenti gabinetti, con buon standing internazionale. Il Presidente della Repubblica ad interim, Oleksandr Turchynov, designato dal Parlamento, tipica espressione della nomenklatura economica postsovietica, fu un importante esponente del “clan di Dnipropetrovsk”, di cui fanno parte la Tymoshenko e l’ex-Presidente Kuchma. Il Presidente ad interim Oleksandr Turchynov

La Presidenza Poroshenko Eletto il 25 maggio 2014, Petro Poroshenko si è insediato al

La Presidenza Poroshenko Eletto il 25 maggio 2014, Petro Poroshenko si è insediato al vertice dello Stato. Meglio conosciuto come il “re del cioccolato”, essendo proprietario della Roshen, una “multinazionale” dei dolciumi, si è sempre distinto per una notevole abilità politica, ricoprendo ruoli istituzionali, come Ministro, sia in governi “arancioni” che in gabinetti di Yanukovych. Ormai la sua attività economico-imprenditoriale si è estesa anche ad altri settori, tra cui i trasporti, l’edilizia e le comunicazioni, divenendo a pieno titolo un «oligarca» , decisamente esponente dell’élite economico-finanziaria. Nella gestione delle recenti vicende della Crimea e delle regioni separatiste di Donetsk e di Luhansk, Poroshenko è entrato spesso in contrasto con il Premier Arseniy Yatsenyuk, assumendo una posizione di maggiore equilibrio tra le istanze filo-russe e quelle filooccidentali. Sempre più la vicenda politica ucraina è nelle mani di oligarchi. Petro Poroshenko

Le élites post-Maidan/2 Il 26 ottobre 2014 vanno in scena le prime elezioni parlamentari

Le élites post-Maidan/2 Il 26 ottobre 2014 vanno in scena le prime elezioni parlamentari dopo i fatti di Maidan (le ultime risalivano al 2012) che andranno ad eleggere i 450 membri del Parlamento ucraino. L'esito delle elezioni fu un sostanziale pareggio tra il Blocco Poroshenko (21, 8%), costituito dal gruppo di partiti e movimenti che sostengono il presidente in carica e il Fronte popolare (22%) del primo ministro uscente Arseniy Yatsenyuk. Il 27 novembre, con 341 voti a favore, il Parlamento confermò Yatsenyuk nel ruolo di primo ministro. Il duo Yatsenyuk-Poroshenko dà il via a un governo di chiara matrice economico-finanziaria. Entrambi caratterizzati da posizioni europeiste, il governo da loro scelto è di chiara ispirazione filooccidentale. I ministri nominati nelle posizioni strategiche per la riorganizzazione economica nazionale sono accumunati da un approccio ultra-liberista che persegue il processo di privatizzazione dell'economia e dei principali asset ucraini. La formazione del nuovo esecutivo ucraino ha visto la nomina di 3 ministri stranieri (Natalia Jaresko, Aivaras Abromavicius, Alexander Kvitashvili). Il metodo di selezione fu più simile a quello di una multinazionale che a un organismo politico, affidata a due società esperte nella selezione del personale e finanziata dal miliardario americano di origine ungherese George Soros. Arseniy Yatsenyuk

Russia e Ucraina a confronto I due casi di studio selezionati sono rappresentativi di

Russia e Ucraina a confronto I due casi di studio selezionati sono rappresentativi di differenti percorsi politici nello spazio post-sovietico: in Ucraina, la “rivoluzione arancione” e i fatti di «Maidan» hanno determinato un ricambio, seppur momentaneo nel primo caso, di élites al potere di matrice economica, perpetuando, se non accelerando, un percorso di subordinazione della politica all’economia; in Russia, le prime dimostrazioni di dissenso politico e di fermenti dal basso della metà degli anni ‘ 2000, poi divenuti più eclatanti in occasione delle scadenze elettorali del 2011 -2012, non hanno determinato alcun cambiamento nell’assetto di potere pre-esistente, indicando una prospettiva di medio-lungo termine di ulteriore consolidamento dell’attuale élite di stampo politico-amministrativo, in una logica sempre più evidente di “politica al posto di comando”. Un’élite al potere a prevalenza politico-amministrativa è interprete di una politica di progetto avente come prospettiva finale la realizzazione di vantaggi collettivi e di valori di identificazione comune. Un sistema politico dominato da élites economiche auto-interessate, volte a garantirsi, attraverso i canali politico-amministrativi, assetti economico-finanziari sempre più vantaggiosi, dimostra la propria dipendenza da accordi e patti a più livelli denotando una forte caducità.

Le élites dell’Azerbaijan In Azerbaijan, l’ultimo periodo sovietico e la prima fase post-sovietica furono

Le élites dell’Azerbaijan In Azerbaijan, l’ultimo periodo sovietico e la prima fase post-sovietica furono caratterizzate dall’affermazione di una contro-élite, alternativa al Partito Comunista dell’Azerbaijan: il Fronte Popolare dell’Azerbaijan. Rivendicando l’indipendenza, il processo di nationbuilding di matrice turca e anti-sovietica, riuscì a insediare alla guida del paese il proprio leader Ebulfez Elchibey in occasione delle elezioni del 7 giugno 1992. L’instabilità determinata dal conflitto in Nagorno. Karabakh, l’insoddisfazione popolare per le condizioni economiche e l’ostilità manifestata dai quadri amministrativi nei confronti della nuova élite, determinarono un rapido ricambio al vertice nel 1993, con la proclamazione per referendum del nuovo Presidente Heydar Aliyev. Fu una transizione non pactada ma basata su una netta ruptura. Si trattava di un «vecchio quadro» sovietico, già Primo Segretario del PC locale del 1969 al 1982. Aliyev garantì al paese stabilità, sicurezza e benessere grazie alle rendite petrolifere. Alla morte di Heydar, nel 2003, gli successe il figlio, Ilham, eletto nel 2003, 2008 e 2013, con circa l’ 85% dei consensi. Nel 2009 fu introdotto per emendamento costituzionale la Presidenza a vita. Tratti caratteristici di tale élite: culto della personalità; regionalismi; relazioni patron-client (clan di Nakhchivan e Yeraz); limitazione delle libertà.

Le élites del Turkmenistan riflettono molto il proprio retaggio storico pre-sovietico. Nonostante i circa

Le élites del Turkmenistan riflettono molto il proprio retaggio storico pre-sovietico. Nonostante i circa 70 anni di regime sovietico, la suddivisione in tribù permane il principale criterio di organizzazione politicosociale del paese. Durante il governo del primo Presidente a vita, Saparmurat Niyazov, dal 1991 al 2006, data della sua morte, la sua tribù, Ahal Teke, non soltanto ha dominato la politica turkmena, ma è stata la beneficiaria di tutti i programmi economici del Presidente, con base principale ad Ashgabat. Con Niyazov fu molto spiccato il culto della personalità: gli fu assegnato l’appellativo di Turkmenbashi, ossia «padre di tutti i turkmeni» . L’ 11 febbraio 2007 le elezioni hanno proclamato Presidente e Capo del Governo Gurbanguly Berdimuhammedov, già Presidente ad interim, con l’ 89, 2% dei voti. Il 12 febbraio 2012 è stato riconfermato Presidente con il 97, 14% dei voti. Sebbene sia proseguito il dominio degli Ahal Teke, il nuovo Presidente parve cogliere i rischi di instabilità di una politica economica a senso unico, pro-Ahal Teke. Si confermarono i caratteri personalistici della leadership, con un’accentuazione degli aspetti autoritari. Le connotazioni regionalistiche, claniche e patrimonialistcihe del potere in Turkmenistan sono ormai un dato acquisito. Da sottolineare, soprattutto con Niyazov, l’accentramento monopolistico dei principali assets dell’economia del paese, soprattutto nel settore energetico e delle costruzioni.