Lavoratori e lavoro nella letteratura italiana Io entro

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Lavoratori e lavoro nella letteratura italiana «Io entro in una fabbrica a capo scoperto

Lavoratori e lavoro nella letteratura italiana «Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito. Uno strano rito partoriale, qualcosa come la moltiplicazione dei pesci, il maturarsi delle uova sotto la chioccia in un canestro, l’esplosione di un albero di mele, la manipolazione dei pani in una vecchia madia. Sotto questi capannoni, uomini e macchine si affannano intorno a un lavoro che ha sempre del miracolo: una Metamorfosi! È chiaro che noi consideriamo le macchine come degli organismi inferiori. Esse lavorano a occhi chiusi. Non vedono e non sentono [. . . ] ma quasi sempre palpitano, sospirano, russano, fanno le fusa. Sono contente del loro padrone» . (Leonardo Sinisgalli, L’operaio e la macchina, Rivista Pirelli, gennaio 1949)

 «La letteratura, in confronto alla trasformazione grandiosa e terribile che avviene nella realtà

«La letteratura, in confronto alla trasformazione grandiosa e terribile che avviene nella realtà intorno a noi e in ogni nostro rapporto con essa, risulta nel suo complesso storicamente più arretrata non solo della sociologia neomarxista o di alcune tecnologie (e della loro incipiente filosofia della tecnica), ma anche di attività artistiche come la pittura o come la musica che almeno si sono lasciate dietro le spalle, e a cominciare da tempi in cui “l’industria” era alle prime avvisaglie, la loro dimensione melodica di vecchie complici della “natura”. […] Lo scrittore, tratti o no della vita di fabbrica, sarà a livello industriale solo nella misura in cui il suo sguardo e il suo giudizio si siano compenetrati di questa verità e delle istanze (istanze di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore) ch’essa contiene» . (Elio Vittorini, Industria e letteratura, Il Menabò di letteratura, n. 4, 1961)

 «Se fabbriche e operai occupano poco posto come paesaggio e personaggi nella storia

«Se fabbriche e operai occupano poco posto come paesaggio e personaggi nella storia letteraria, non si può dimenticare quale posto imponente hanno come paesaggio e personaggi della storia delle idee degli ultimi cento anni. L’operaio è entrato nella storia della cultura come protagonista storico-filosofico, mentre prima succedeva il contrario: il cacciatore, il pastore, il guerriero, l’agricoltore, il mercante, il cavaliere feudale, l’artigiano astuto, il cortigiano amoroso, il borghese avventuroso, sono entrati nella storia della cultura come protagonisti poetici, in fiabe, epopee, tragedie, egloghe, commedie, cantari, sonetti, novelle. […] Questa assoluta priorità della definizione d’ordine storico-filosofico ha finora pesato su ogni tentativo di definizione di ordine poetico della vita operaia. Soprattutto la narrativa non è intervenuta che a confermare ed esemplificare quel che gli ideologi e i politici sapevano già» . (Italo Calvino, La tematica industriale, II Menabò di letteratura, n. 5, 1962)

Con Il costo della vita, Angelo Ferracuti ci riporta agli anni Ottanta del Novecento,

Con Il costo della vita, Angelo Ferracuti ci riporta agli anni Ottanta del Novecento, a Ravenna, e fa rivivere, anche attraverso le foto coeve del famoso fotogiornalista Mario Dondero, una “tragedia operaia”, una delle tante, tra quelle più clamorose, che hanno scandito inesorabilmente il tempo dall’Unità d’Italia ad oggi. Un pur breve elenco di “tragedie” deve necessariamente comprendere: *il traforo del Freyus (1857 -1871) con oltre 200 morti; *il Traforo del Sempione (1898 -1906) con almeno 106 morti; *Monongah (6 dicembre 1907) con 425 morti “ufficiali”, dei quali 171 italiani; *Dawson (22 ottobre 1913) con 123 morti, dei quali 20 italiani; *Colleferro (29 gennaio 1938) con almeno 60 morti; *Ribolla (4 maggio 1954) con 43 morti; *Marcinelle (8 agosto 1956) con 262 morti, dei quali 136 italiani; *l’autostrada del sole (1956 -1964) con oltre 150 morti; nonché tutti gli altri episodi degli anni Novanta e Duemila, sino al più recente accuduto nel porto di Genova.

La Sicilia è stata fondamentalmente terra di latifondi, di contadini, di braccianti. Nel dopoguerra

La Sicilia è stata fondamentalmente terra di latifondi, di contadini, di braccianti. Nel dopoguerra e negli anni del boom, la Sicilia ha però vissuto un “sogno”: l’industria. Il bracciante sogna di diventare operaio, imparare il segreto di quelle macchine, avere un buon salario. Il padrone della terra sogna un giorno di essere il padrone di quelle macchine. Padroni e servi del Sud. Entrambi contadini ed entrambi storicamente vinti e nell’imminenza di un’altra sconfitta, sognano l’industria[…]”. [Giuseppe Fava, Industria, il fallito sogno siciliano, n. 5 maggio 1983] I Siciliani raccontò la nascita di questo sogno e la sua morte. In particolare fu condotta un’indagine sull’installazione dell’industria petrolchimica in Sicilia. Quattro grossi servizi, usciti nei numeri di gennaio, marzo, giugno e luglio, curati da Giuseppe Fava, Miki Gambino, Claudio Fava, Giovanna Quasimodo, analizzarono i retroscena della nascita dell’ASI, gli interessi dei gruppi petroliferi del Nord e dell’imprenditoria locale, le corruzioni politiche, le conseguenze da un punto di vista economico, sociale ed umano di quello che fu vissuto da molti come il sogno di emancipazione dalla terra, il passaporto per la modernità, la possibilità di un posto di lavoro, anch’esso faticoso certamente, ma molto meno pesante di quello agricolo e, soprattutto, sicuro. “Tutto il grande sogno dell’industria siciliana finisce lì, in quelle cento, duecento ciminiere metalliche sprigionano fuochi velenosi, notte e giorno. Il territorio che cominciava a morire, il mare di piombo senza più pesci, gli esseri umani che cominciavano a morire cinque o sei anni prima di quanto il destino e la costituzione fisica potesse loro consentire. Tutto il resto fu velleitarismo, spreco di intelligenza, dilapidazione di migliaia di miliardi e di speranze”.

L‘industria, nella letteratura successiva al dopoguerra, sembra assumere un ruolo centrale. Il lavoro, la

L‘industria, nella letteratura successiva al dopoguerra, sembra assumere un ruolo centrale. Il lavoro, la fabbrica, la condizione operaia sono i nuovi temi su cui dibattono gli intellettuali. Se l’istanza di fondo del neorealismo era quella di impegnarsi nella ricostruzione civile e materiale della nazione, ora l’intellettuale che a quella ricostruzione ha preso parte non può lasciare il suo ruolo di “impegno”, di “engagement” studia la realtà, si interroga sui rapporti di produzione, sul ruolo dell’industria e sui modelli e ritmi di vita che questa produce. Non è un caso che i più attenti osservatori del nascente mondo dell’industria siano per l’appunto gli stessi che erano stati protagonisti (chi in un modo, chi in un altro) della stagione neorealista: Calvino e Vittorini. Sul finire degli anni Cinquanta e lungo tutta la prima metà degli anni Sessanta, in Italia si assiste al boom economico. Dopo anni in cui sono state ricostruite infrastrutture e luoghi di produzione dell’industria, l’Italia di colpo si riscopre un paese avanzato e all’avanguardia in quasi tutti i settori della produzione: l’industria porta nelle case delle masse popolari elettrodomestici e altri confort, la televisione entra in ogni casa ed è straordinariamente in grado di mostrare sullo schermo ciò che in tempo reale succede nell’altra parte del pianeta. Inevitabilmente le mutate condizioni materiali di vita degli Italiani condizionano i rapporti umani, i comportamenti e la mentalità. Nel giro di pochi anni sono distrutte le secolari strutture patriarcali della famiglia, tanto uno dei maggiori intellettuali di questo periodo, Pier Paolo Pasolini non esita a definire il fenomeno come una vera e propria “mutazione antropologica”.

Industria nella letteratura: Vittorini e Calvino fondano il Menabò Il tema dell’industria è fondamentale

Industria nella letteratura: Vittorini e Calvino fondano il Menabò Il tema dell’industria è fondamentale in Vittorini e la sua attività saggistica è proficua di questi temi in questo periodo. Viene fondata dunque, nel 1959, una rivista “di critica letteraria e sociale” da Calvino e Vittorini chiamata “Il Menabò” (il titolo rimanda ad un tecnicismo del gergo giornalistico-editoriale). La rivista era quasi completamente incentrata sul rapporto tra letteratura e industira; ospitava riflessioni di scrittori che ora si interrogavano sul nuovo ruolo assunto dall’intellettuale di fronte a questo fenomeno, sulle nuove forme di produzione, su come la divisione del lavoro potesse incidere sulle vite umane e sui comportamenti. Era la prima volta, infatti, nella storia che l’intellettuale diventa un salariato dell’industria culturale. Vittorini sosteneva che il boom economico e questa nuova rivoluzione industriale avesse colto totalmente impreparato il mondo intellettuale e vedeva il rischio di un’impossibilità da parte del letterato di essere non solo totalmente tagliato fuori dal mondo dell’industria, ma addirittura di non riuscirne a capire i meccanismi, le strutture di fondo, ma soprattutto di non riuscire a capire la nuova visione del mondo generata dalla divisione del lavoro. Non è infatti un caso che alcuni esponenti della Neoavanguardia come Pagliarani e Sanguineti, che avevano sostenuto la necessità da parte della letteratura di mimare e riprodurre i ritmi di vita dell’industria come dispositivo di corrosione e disintegrazione delle strutture poetiche e narrative tradizionali, avevano guardato con interesse e pubblicato sul Menabò.

Calvino sostenne invece nel celebre saggio La sfida al labirinto sostenne la necessità di

Calvino sostenne invece nel celebre saggio La sfida al labirinto sostenne la necessità di guardare al mondo dell’industria, in tutta la sua complessità, come complesso è la condizione umana nel senso più generale del concetto, di studiare il sistema della realtà industriale ma di non fermarsi ad una mimesi passiva della realtà industriale, sia essa anche un potente strumento di smascheramento dell’ideologia e demistificazione di un universo come quello dell’industria che si pone come totalizzante. La letteratura ha un compito più grande quello di non rinunciare a farsi guida morale della società, quello di tutelare i valori della bellezza che gli aspetti più turpi del capitalismo industriale sembrano minacciare; di continuare, nonostante la complessità a interrogarsi e individuare il senso della storia, sul senso dell’esistenza umana. Altre forme di interesse verso il mondo dell’industria nella letteratura Negli stessi anni anche altri scrittori si ponevano gli stessi interrogativi. Non è tralasciabile, in tal contesto, il pensiero della scuola di Francoforte che era completamente incentrato sul mondo dell’industria e sull’appiattimento culturale che esso produceva. Un grande autore, influenzato molto dal pensiero negativo di questa scuola è senza dubbio Franco Fortini, poeta fortemente ancorato al marxismo che aveva sempre visto in maniera poco fiduciosa il nuovo decollo industriale. L’atteggiamento di scetticismo e sfiducia nei confronti del ruolo dell’industria era espresso anche da altri autori come Mastronardi e Parise.