Cartesio esistenza delle cose esistenza di Dio Prof

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Cartesio (esistenza delle cose; esistenza di Dio) Prof. Michele de Pasquale

Cartesio (esistenza delle cose; esistenza di Dio) Prof. Michele de Pasquale

acquisita la certezza della propria esistenza come pensiero (res cogitans), Cartesio si interroga sulla

acquisita la certezza della propria esistenza come pensiero (res cogitans), Cartesio si interroga sulla esistenza delle cose: che tipo di conoscenza dobbiamo mettere in atto per giungere alla certezza dell’esistenza delle cose corporee? la conoscenza dell’intelletto raggiunge una conoscenza più chiara e distinta rispetto a quella operata con i sensi: dei corpi si può sapere qualcosa di certo non affidandosi ai sensi che possono ingannare, ma al pensiero che li concepisce come estesi (res extensa: occupano uno spazio, si muovono)

“ Consideriamo quelle cose che generalmente si ritiene vengano comprese nella maniera più distinta:

“ Consideriamo quelle cose che generalmente si ritiene vengano comprese nella maniera più distinta: cioè i corpi che tocchiamo, che vediamo; non certo i corpi comunemente intesi - infatti queste percezioni generali sogliono essere alquanto più confuse - ma uno in particolare. Prendiamo, ad esempio, questa cera: da pochissimo è stata presa dai favi; non ha ancora perso ogni traccia del sapore del miele; conserva ancora un qualche profumo dei fiori dai quali è stata raccolta; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifeste; è dura, è fredda, si tocca facilmente, e, se la tocchi con un dito, emetterà un suono; sono presenti in essa tutte quelle qualità che ci sembra debbano esserci perché un corpo possa essere conosciuto nella maniera più distinta. Ma ecco, mentre parlo, viene avvicinata al fuoco; vengono eliminati i resti del sapore, evapora l'odore, muta il colore, vengono eliminati i contorni, cresce la grandezza, diviene liquida, diviene calda, a stento si può toccare né, se la tocchi, emetterà un suono. È sempre la stessa cera? Bisogna dire di sì; nessuno lo nega, nessuno crede diversamente. Che cosa era dunque in essa che si percepiva tanto distintamente? Certo nessuna di quelle cose che raggiungevo coi sensi, e infatti tutto ciò che veniva percepito dal gusto, dall'odorato, dalla vista, dal tatto o dall'udito è mutato; rimane comunque cera. Forse era quello che penso ora: che la cera stessa cioè non fosse questa dolcezza del miele, né quella fragranza dei fiori, né il colore bianco, né la figura, né il suono, ma un corpo che poco fa mi appariva evidente in quei modi, ed ora in forme diverse. Cosa è dunque precisamente questo che immagino così? %

cera, vediamo quel che rimane: certo null'altro che qualcosa di esteso, flessibile, mutevole. Che

cera, vediamo quel che rimane: certo null'altro che qualcosa di esteso, flessibile, mutevole. Che cosa è poi questo che è flessibile e mutevole? Forse quello che immagino, che questa cera si possa cambiare dalla figura rotonda in quadrata, o da questa si possa cambiare in triangolare? Per nulla. Infatti comprendo che può essere capace di innumerevoli mutazioni di tale tipo, ma non posso tuttavia con l'immaginazione passare in rassegna tutti questi infiniti cambiamenti; né dunque questo concetto può essere raggiunto mediante l'immaginazione. Che cosa è l'estensione? Forse non è la stessa estensione sconosciuta? Infatti nella cera che si sta liquefacendo è maggiore, maggiore quando ribolle, e più grande ancora se aumenta il calore; né giudicherei bene che cosa è la cera, se non pensassi che essa può raggiungere anche varietà molto più numerose, riguardo all'estensione, di quanto possa mai concepire con la mia immaginazione. Rimane dunque che io ammetta che non posso nemmeno immaginare cosa sia questa cera, ma posso coglierlo soltanto con la mente, e dico di questa che ho qui in particolare; della cera comunemente intesa, infatti, è più chiaro. Che cosa è dunque questa cera, che non si comprende se non con la mente? Certo la stessa che vedo, che tocco, che immagino, ed infine la stessa che pensavo essere all'inizio. Eppure, cosa che è da notare, la sua percezione non dipende dalla vista, non dal tatto, non dalla immaginazione, e non lo fu mai, sebbene prima sembrasse così, ma solo da una investigazione della mente, che può essere imperfetta e confusa, come era prima, o chiara e distinta, come è ora; a seconda che più o meno mi avvicini con l'attenzione a quelle cose dalle quali è formata. %

Ma mi stupisco, frattanto, di quanto la mia mente possa cadere nell'errore. Infatti sebbene

Ma mi stupisco, frattanto, di quanto la mia mente possa cadere nell'errore. Infatti sebbene consideri tutto ciò in silenzio e senza esprimere alcun suono, tuttavia rimango attaccato alle stesse parole, e quasi sono ingannato dallo stesso uso della lingua. Diciamo infatti di vedere la cera stessa, se è qui presente, ma non di giudicare che essa esiste in relazione al colore e alla figura. In base a questo concluderei subito: dunque la cera viene conosciuta attraverso la vista, e non dall'esame della mente se per caso non avessi già scorto da una finestra degli uomini che passano per la piazza; e affermo di vedere proprio degli uomini in base alla consuetudine, allo stesso modo di ciò che affermo a proposito della cera. Ma che cos'altro vedo se non berretti e vesti, sotto i quali potrebbero nascondersi degli automi? Ma giudico che siano degli uomini. E quindi quello che pensavo di vedere con gli occhi in realtà lo comprendo con la sola facoltà di giudizio, che è nella mente. Ma si vergogni piuttosto colui che, desiderando essere più sapiente del volgo, trova materia di dubbio dalle forme di parlare che il volgo usa. Proseguiamo dunque oltre e consideriamo: forse io percepivo cosa fosse la cera in maniera più perfetta e più evidente, non appena l'ho vista, ed ho creduto di poterla conoscere proprio con i sensi esterni o almeno con quello che chiamano senso comune, cioè con la potenza dell'immaginazione? oppure la conosco meglio adesso, dopo aver investigato con maggior

Ma poi, quando distinguo la cera dalle sue forme esterne e la considero nuda,

Ma poi, quando distinguo la cera dalle sue forme esterne e la considero nuda, come se fosse spogliata dalle sue vesti, sebbene ancora ci possa essere un errore nel mio giudizio, tuttavia in realtà non lo posso cogliere senza l'attività della mente umana. Che cosa dunque dovrei dire di questa stessa mente, o piuttosto di me stesso? Ed infatti fin qui non ammetto che in me ci sia null'altro che la mente. Che cosa sono io dico a questo punto - che sembro percepire in maniera tanto distinta questa cera? Non conosco forse me stesso non soltanto con molta maggiore verità e con molta maggiore certezza, ma anche in maniera più distinta ed evidente? Infatti, se giudico che la cera esiste per il fatto che la vedo, certo ne consegue in maniera molto più evidente che esista anche io stesso per il fatto che la vedo. Può infatti accadere che ciò che vedo non sia veramente cera; può accadere allo stesso modo che io non abbia neppure occhi con cui vedere qualcosa; tuttavia, quando vedo - o piuttosto, cosa che non distinguo più, quando penso di vedere - è assolutamente impossibile che quell'io stesso che pensa non sia qualcosa. Allo stesso modo, se giudico che la cera esiste per il fatto che la tocco, si verificherà la stessa condizione, e cioè che io sono. O per il fatto di immaginarla o per qualsiasi altra causa, avviene sempre la stessa cosa. Ma questa verità che ho raggiunto riguardo alla cera, la si può applicare a tutte le altre cose che sono poste fuori di me. Ordunque, se la percezione della cera è sembrata più distinta dopo che mi si è presentata, e non solo ad opera della vista e del tatto, ma per

Ma nella stessa mente si trovano ancora tante di quelle cose che possono contribuire

Ma nella stessa mente si trovano ancora tante di quelle cose che possono contribuire a chiarirne la natura, che quelle che vanno dal corpo alla mente non meritano nemmeno di essere indicate. Ed ecco, infine, che spontaneamente sono tornato a quello a cui volevo giungere. Infatti, poiché ora mi è noto che gli stessi corpi non sono percepiti propriamente dai sensi, o dalla facoltà dell'immaginazione, ma rappresentati dal solo intelletto, e non vengono percepiti per il fatto che sono toccati o veduti, ma soltanto per il fatto che sono compresi, conosco apertamente che nulla può essere rappresentato da me in maniera più facile ed evidente della mia mente. Ma dal momento che la consuetudine con una antica opinione non può essere abbandonata tanto presto, mi piace fermarmi qui, perché questa nuova conquista della mente si possa imprimere nella mia memoria grazie ad una durevole meditazione. (Dalle Meditazioni metafisiche)

in che modo la coscienza potrà arrivare a riconoscere fuori di sé la esistenza

in che modo la coscienza potrà arrivare a riconoscere fuori di sé la esistenza di altre realtà? è sufficiente affermare che alle idee delle cose che appaiono chiare e distinte alla nostra mente, corrispondono effettivamente quelle cose nella realtà? ma la chiarezza e la distinzione che hanno reso evidente il mio autoriconoscimento come sostanza pensante, non possono valere a giustificare da sole ogni altro riconoscimento di verità, in quanto non ancora sono uscito completamente dallo stato di dubbio “ è necessario che, appena mi si presenti l'occasione, io esamini se vi sia un Dio e, ove conosca che ce n'è uno, se egli possa ingannare: giacché, senza la conoscenza di queste due verità, non so come potrei mai essere certo di cosa alcuna” (Dalle Meditazioni metafisiche)

il criterio di verità viene fondato metafisicamente sull’esistenza di Dio: la sicurezza dell’esistenza delle

il criterio di verità viene fondato metafisicamente sull’esistenza di Dio: la sicurezza dell’esistenza delle cose – la cui idea appare chiara e distinta alla nostra mente – si basa sul fatto che Dio in quanto esistente non può ingannarci facendo apparire vero ciò che è falso dopo aver classificato le idee in: innate (quando la facoltà di concepire una cosa viene dalla propria natura); avventizie (venute da fuori); fattizie (quelle inventate), Cartesio sostiene che ci sono idee che hanno più realtà oggettiva di altre l’idea di Dio ha più realtà oggettiva dell’idea di una sostanza finita “ perché un'idea contenga in sé una realtà obiettiva, essa deve indubbiamente ripeterla da una causa che possieda per lo meno altrettanta realtà formale. ” (Dalle Meditazioni metafisiche)

“ In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo, e che di conseguenza

“ In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo, e che di conseguenza il mio essere non era del tutto perfetto, giacché vedevo chiaramente che conoscere è una perfezione maggiore di dubitare, mi misi a cercare donde avessi appreso a pensare qualcosa di più perfetto di quel che ero; e conobbi in maniera evidente che doveva essere da una natura che fosse di fatto più perfetta. Per quel che riguarda i pensieri che avevo di molte altre cose fuori di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore, e mille altre, non mi davo molta pena di cercare donde mi venissero, giacché non notavo in essi nulla che li rendesse superiori a me, e perciò potevo credere che, se erano veri, dipendevano dalla mia natura in quanto dotata di qualche perfezione; e se non lo erano, mi venivano dal nulla, cioè erano in me per una mia imperfezione. Ma non potevo dire lo stesso dell'idea di un essere più perfetto del mio: perché, che mi venisse dal nulla, era chiaramente impossibile; e poiché far seguire o dipendere il più perfetto dal meno perfetto è altrettanto contraddittorio quanto far procedere qualcosa dal nulla, non poteva neppure venire da me stesso. Di modo che restava che fosse stata messa in me da una natura realmente più perfetta della mia, e che avesse anche in se tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea, e cioè, per spiegarmi con una sola parola, che fosse Dio. A questo aggiunsi che, poiché conoscevo qualche perfezione di cui mancavo del tutto, non ero il solo essere esistente… ma occorreva necessariamente che ce ne fosse qualche altro più perfetto, dal quale

Giacché se ne fossi stato solo e indipendente da ogni altro e avessi così

Giacché se ne fossi stato solo e indipendente da ogni altro e avessi così avuto da me stesso tutto quel poco che partecipavo dell'essere perfetto, avrei potuto avere da me, per la stessa ragione, tutto il di più che sapevo mancarmi, ed essere per tanto io stesso infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, avere insomma tutte le perfezioni che potevo vedere in Dio. Poiché, seguendo i ragionamenti appena fatti, per conoscere la natura di Dio per quanto la mia ne era capace, non dovevo far altro che considerare ogni cosa di cui trovavo in me qualche idea, se era una perfezione possederla, e così ero sicuro che nessuna di quelle che indicavano qualche imperfezione era in lui, mentre vi erano tutte le altre. Così vedevo che il dubbio, l'incostanza, la tristezza e le altre cose simili a queste non potevano essere in lui dal momento che sarei stato anch'io ben felice di esserne privo. Oltre a ciò avevo idee di cose sensibili e corporee: giacché anche se supponevo di sognare, e che fosse falso tutto quel che supponevo o immaginavo, non potevo negare tuttavia che le idee di queste cose fossero realmente nel mio pensiero. Ma poiché avevo conosciuto molto chiaramente in me stesso che la natura intelligente è distinta da quella corporea, considerando che ogni composizione attesta una dipendenza, e che la dipendenza è manifestamente un difetto, giudicai da ciò che non avrebbe potuto costituire una perfezione in Dio l'essere composto di quelle due nature, e dunque che non lo era; e che anzi, … se c'era qualche corpo al mondo, o

geometria, che concepivo come un corpo continuo ovvero uno spazio indefinitamente esteso in lunghezza,

geometria, che concepivo come un corpo continuo ovvero uno spazio indefinitamente esteso in lunghezza, larghezza, altezza o profondità, divisibile in diverse parti, che potevano avere varie figure e grandezze, ed essere mosse a piacere o trasportate da un posto a un altro, giacché proprio questo i geometri suppongono nel loro oggetto, ripercorsi alcune delle loro più semplici dimostrazioni. E avendo notato che quella gran certezza che tutti vi riconoscono è fondata soltanto sul fatto che sono concepite con evidenza, secondo la regola che ho appena esposto, notai anche non c'era assolutamente nulla, in esse, che mi assicurasse dell'esistenza del loro oggetto. Giacché, per esempio, vedevo bene che, supposto un triangolo, era necessario che i suoi angoli fossero uguali a due retti; ma con questo non vedevo nulla che mi assicurasse dell'esistenza di qualche triangolo nel mondo. Mentre, tornando alla mia idea di un essere perfetto, trovavo che l'esistenza vi era compresa come è compreso nell'idea di un triangolo che i suoi angoli sono uguali a due retti, o in quella di una sfera che tutte le sue parti sono equidistanti dal centro, o anche con maggiore evidenza; e per conseguenza che Dio, che è questo essere perfetto, è o esiste, è almeno altrettanto certo quanto potrebbe esserlo una qualunque dimostrazione della geometria. Ma la ragione per cui molti si convincono che ci sono difficoltà a conoscere ciò, è anche a conoscere che cosa è la propria anima, è che non portano mai la loro mente al di là delle cose sensibili, e sono talmente abituati a non considerare nessuna cosa se non immaginandola (che è un modo particolare di pensare le cose materiali), da ritenere che tutto quel che non è immaginabile non è neppure intelligibile. %

Ciò appare abbastanza chiaro dal fatto che anche i filosofi delle Scuole considerano come

Ciò appare abbastanza chiaro dal fatto che anche i filosofi delle Scuole considerano come massima che nulla sia nell'intelletto che prima non sia stato nel senso: dove è certo tuttavia che le idee di Dio e dell'anima non sono mai state. E mi sembra che quelli che vogliono far uso della loro immaginazione per comprenderle, fanno proprio come se volessero servirsi degli occhi per udire i suoni o sentire gli odori: con in più questa differenza, che la vista non ci rende meno sicuri della verità dei suoi oggetti, di quanto facciano l'odorato e l'udito; mentre né l'immaginazione né i sensi potrebbero mai renderci certi di qualcosa senza l'intervento del nostro intelletto. ” (Dal Discorso sul metodo)

le prove dell’esistenza di Dio posto che la causa deve contenere in sè tanta

le prove dell’esistenza di Dio posto che la causa deve contenere in sè tanta realtà almeno quanta ne contiene l’effetto, la causa di un’idea deve possedere tanta realtà quanta è la realtà oggettiva dell’idea: dell’idea di Dio - idea di sostanza infinita - non posso essere io la causa, dato che sono una sostanza finita non potrei avere l’idea di una sostanza infinita se non mi fosse stata messa da una sostanza veramente infinita la seconda prova dell’esistenza di Dio si fonda sul concetto di causa efficiente: è impossibile un regressus all’infinito nell’ordine delle cause la terza prova si fonda sull’identificazione tra esistenza e perfezione: se Dio ha tutta le perfezioni, esiste (si tratta di una rivisitazione dell’argomento ontologico di Anselmo)

dimostrata l’esistenza di Dio, “ deriva abbastanza chiaramente che Dio non può ingannarci, giacché

dimostrata l’esistenza di Dio, “ deriva abbastanza chiaramente che Dio non può ingannarci, giacché è manifesto per luce naturale che l'errore procede necessariamente da qualche privazione. ” (Dalle Meditazioni metafisiche) l’errore, oltre ad essere il segno della finitezza dell’uomo, ha un’origine pratica: esso è la conseguenza di una volontà che va oltre i limiti della conoscenza e dà giudizi su cose non chiaramente e distintamente rappresentate dall’intelletto la veracità divina fonda le mie idee chiare e distinte: tutte le idee concepite come chiare e distinte - le idee degli enti matematici, i principi primi di ogni conoscenza (ad esempio il principio di non contraddizione ed il principio di causalità), l'idea di Dio ecc. - sono innate nelle menti umane e posseggono una forte carica di realtà, non sono riducibili al nulla

“ Infine, se ci sono ancora degli uomini non abbastanza persuasi dell'esistenza di Dio

“ Infine, se ci sono ancora degli uomini non abbastanza persuasi dell'esistenza di Dio e della loro anima per le ragioni che ho portato, voglio proprio che sappiano che tutte le altre cose di cui pensano di essere forse più sicuri, come di avere un corpo, e dell'esistenza degli astri, della terra e simili, sono meno certe. Perché sebbene si abbia di queste una certezza morale, tale che non si possa dubitarne a meno di non essere stravaganti, tuttavia, a meno di non essere irragionevoli, quando è in questione una certezza metafisica, non si può neanche negare che sia un motivo sufficiente per non ritenersi interamente certi quello di accorgersi che si può, allo stesso modo, immaginare nel sonno di avere un altro corpo, o di vedere altri astri o un altra terra senza che ci sia nulla di tutto questo. Perché da dove sappiamo che sono più falsi degli altri i pensieri che ci vengono in sogno, visto che non sono spesso meno vivaci e netti? Cerchino pure i migliori ingegni, fintanto che a loro piace: non vedo che possano addurre una ragione sufficiente a togliere questo dubbio, se non presuppongono la esistenza di Dio. Perché, in primo luogo, anche quella che ho assunto poc’anzi come regola, cioè che le cose che concepiamo molto chiaramente e distintamente sono tutte vere, non è certa se non perché Dio è o esiste, perché è un essere perfetto e perché da Lui riceviamo tutto quello che è in noi. Di qui segue che le nostre idee o nozioni, essendo in tutto ciò per cui sono chiare e distinte cose reali e che ci vengono da Dio, non possono in questo non essere che vere. Di modo che, se spesso ne abbiamo che contengono del falso, non può trattarsi che di quelle che hanno qualcosa di confuso e oscuro, per il fatto che partecipano in questo del nulla, e cioè sono in noi così confuse solo perché non siamo del tutto

Ed è evidentemente tanto impensabile che il falso o l'imperfezione, in quanto tale, procedano

Ed è evidentemente tanto impensabile che il falso o l'imperfezione, in quanto tale, procedano da Dio, quanto lo è che la verità o la perfezione proceda dal nulla. Ma se non sapessimo che tutto ciò che vi è in noi di reale e di vero ci viene da un essere perfetto e infinito, per chiare e distinte che fossero le nostre idee non avremmo nessuna ragione di essere certi che hanno la perfezione di essere vere. Ora, dopo che la conoscenza di Dio e della mente ci ha in tal modo reso certi di questa regola, è ben facile intendere che i sogni immaginati nel sonno non debbono in nessun modo farci dubitare della verità dei pensieri che abbiamo durante la veglia. Perché se ci accadesse di avere, anche dormendo, qualche idea molto distinta, se un geometra, per esempio, scoprisse qualche nuova dimostrazione, il fatto ch'egli dorma non le impedirebbe di essere vera. E quando all'errore più comune dei nostri sogni, che consiste nel fatto che ci rappresentano diversi oggetti proprio come i sensi esterni, poco importa che ci dia motivo di diffidare della verità di queste idee, giacché spesso possiamo benissimo ingannarci senza che dormiamo: come quando l'itterizia ci fa vedere tutto giallo, o quando ci sembra che gli astri o altri corpi lontanissimi siano molto più piccoli di quel che sono. Perché insomma, sia che vegliamo, sia che dormiamo, non dobbiamo lasciarci convincere che dall'evidenza della nostra ragione. E si badi che dico: della nostra ragione, e non della nostra immaginazione, o dei nostri sensi. Così il sole, sebbene lo vediamo molto chiaramente, non dobbiamo perciò giudicarlo

Ci dice bensì che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento

Ci dice bensì che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità; giacché in caso contrario non sarebbe possibile che Dio, che è assolutamente perfetto e veritiero, le avesse messe in noi. E poiché i nostri ragionamenti non sono mai così evidenti né completi nel sonno come nella veglia, sebbene le immagini quando dormiamo possano essere a volte altrettanto o anche più vivaci e nette, la ragione ci dice ancora che, non potendo i nostri pensieri essere in tutto veri dal momento che non siamo interamente perfetti, quanto hanno di verità deve trovarsi in quelli che abbiamo da svegli, piuttosto che nei nostri sogni. ” (Dal Discorso sul metodo)

in che modo si può spiegare il passaggio dall'idea di estensione in lunghezza, larghezza

in che modo si può spiegare il passaggio dall'idea di estensione in lunghezza, larghezza e profondità e dai suoi attributi, come le grandezze, le figure, le posizioni, i movimenti, all'esistenza di corpi estesi realmente esistenti fuori di noi? chi mi assicura che alla mia idea chiara e distinta di corpo esteso corrisponda nella realtà un corpo esteso? esiste una facoltà passiva di sentire, di ricevere delle rappresentazioni sensibili, la quale sarebbe perfettamente inutile, se non ci fosse fuori di me qualcosa in grado di produrre tali rappresentazioni: questo qualcosa non può essere che un corpo “poiché Dio mi ha fornito una fortissima inclinazione a credere che esse (rappresentazioni sensibili) procedano da cose corporee, non vedo come non potrei accusarlo d'ingannarmi se veramente tali idee non procedessero o non fossero prodotte da cose materiali. Debbo ammettere, pertanto, l'esistenza di cose materiali. ” (Dalle Meditazioni metafisiche)