Romanzieri del secolo XIX novela realista Benito Prez
Romanzieri del secolo XIX (novela realista) Benito Pérez Galdós (Fortunata y Jacinta, Misericordia, Tristana, Doña Perfecta, La familia de León Roch) Armando Palacio Valdés (La hermana San Sulpicio, La aldea perdida, Tristán o el pesimismo). Vicente Blasco Ibáñez (Cuentos valencianos, El intruso, La barraca, Cañas y barro, El Papa del mar, Sangre y arena) Leopoldo Alas Clarín (Cuesta abajo, La Regenta, Su único hijo, El abrazo de Pelayo) Emilia Pardo Bazán (Los pazos de Ulloa, La tribuna, Insolación, Morriña, La quimera) Juan Valera (Las ilusiones del doctor Faustino, El Comendador Mendoza, Pasarse de listo, Doña Luz, Pepita Jiménez)
Romanzo realista 1. Presenza di un progetto narrativo e ideologico. 2. Principio di causalità e consequenzialità degli eventi. 3. Descrizioni ambientali (progetto realista di riproduzione fedele della realtà). 4. Prevalenza del narratore onnisciente e del punto di vista unico. 5. Predominio della narrazione sul dialogo.
Romanzieri di fine Novecento Miguel de Unamuno (1864 -1936) Ramón del Valle Inclán (1866 -1936) José Martínez Ruiz, “Azorín” (1873 -1967) Pío Baroja (1872 -1956) Gabriel Miró (1879 -1930) Ramón Pérez de Ayala (1880 -1962) Ramón Gómez de la Serna (1888 -1963)
Caratteristiche del romanzo modernista Perdita del nesso causale nella rappresentazione degli eventi. Rappresentazione di una realtà mutevole e incomprensibile. Percezione frantumata della realtà esterna e di quella interiore. Predominio del dialogo. Importanza del contenuto intellettuale del romanzo. Punto di vista variabile. Focalizzazione variabile. Disgregazione della trama.
Pío Baroja Trilogía de La vida fantástica: Aventuras, inventos y mixtificaciones de Silvestre Paradox (1901), Camino de perfección (1902), Paradox rey (1906). Trilogía “Tierra basca”: La casa de Aizgorri (1900), el Mayorazgo de Labraz (1903), Zalacaín el aventurero (1909). Trilogía de “La lucha por la vida”: La busca (1904), Mala hierba (1904), Aurora Roja (1905). Trilogía de “La raza”: El árbol de la ciencia, La dama errante y La ciudad de la niebla.
Pío Baroja, Prólogo casi doctrinal sobre la novela in La nave de los locos (1925). Yo desde hace tiempo, me hallo preocupado con esa técnica, no precisamente con la general, sino con la mía propia, y con la posibilidad de modificarla y perfeccionarla. Ahora, esto, sin duda hacedero en teoría, no lo veo igualmente factible en la práctica, o, mejor dicho, no encuentro su eficacia, porque al intentar proyectar mis ideas técnicas sobre la construcción novelesca, se reducen a tan poco, dan un resultado tan parecido a lo inventado por puro instinto, que mis nuevos planes me desilusionan [. . . ] He llegado a pensar que [. . . ] una teoría vale más por los resultados y por su porvenir que por sus posibles aproximaciones a la verdad.
Baroja critica le teorizzazioni di José Ortega y Gasset esposte nel saggio Ideas sobre la novela, in cui lo scrittore aveva proposto un modello di romanzo altamente formalizzato, elitario, lontano dalla rappresentazione della realtà, impermeabile al mondo esterno. Secondo Baroja il romanzo non è definibile rigidamente nelle sue caratteristiche. Il romanzo è invece un genere multiforme, eclettico, e accoglie generi e registri diversi: il libro filosofico, il libro psicologico, il libro di avventure, l’utopia, l’epica. Il romanzo è rappresentazione totale della realtà e deve essere dunque permeabile al mondo esterno.
Baroja è contrario alla eccessiva elaborazione tecnica, formale e retorica. Predilige quella che lui stesso definisce la “retórica del tono menor”, uno stile naturale, una sintassi elementare, un lessico semplice. La rappresentazione della realtà è un imperativo del romanziere ma l’approccio è diverso rispetto ai romanzieri realisti: la realtà è multiforme e caotica, non sempre improntata a principi di logicità e consequenzialità. Per questo Baroja costruisce i suoi romanzi senza un progetto preliminare, al fine di riprodurre quell’impressione di casualità che spesso regola le vicende umane.
La psicologia dei personaggi non viene espressa né dal narratore onnisciente né dai monologhi interiori. Emerge invece dal comportamento degli stessi, dal loro modo di muoversi e di parlare. 1) Importanza dei dialoghi nei romanzi di Baroja. 2) Il lettore assume un ruolo attivo nell’interpretare il carattere del personaggio. 3) Ridimensionamento della funzione del narratore. 4) Struttura episodica dei romanzi. Giustapposizione di vicende e protagonisti, storie parallele. 5) Modello di romanzo “aperto”.
Visione del mondo come un insieme disorganico e casuale. Discontinuità nell’articolazione narrativa. Ritmo incalzante delle azioni. Frequenti e rapidi cambiamenti di scenario. Brevità dei capitoli. Estetica antiretorica.
Camino de perfección (pasión mística) (1902) Si tratta di un romanzo esistenzialista ante litteram. Riflessione profondamente segnata dalla filosofia di Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione) Tesi dottorale di Baroja, El dolor, tratta il dolore da un punto di vista fisiologico invece che metafisico. Influenza del pensiero di Kierkegaard e Nietzsche. Espressione dell’angoscia di vivere. Ossorio è il simbolo della Spagna di allora: soffre di abulia e vaga per il Paese cercando se stesso. Nel suo pellegrinaggio, il protagonista percorre un cammino verso la perfezione, motivo caratteristico della letteratura religiosa e mistica. Baroja ricrea così il paradigma mistico di Camino de perfección (1567) di Santa Teresa de Ávila (di cui riprende anche il titolo).
Camino de perfección (pasión mística) (1902) Percorso mistico: Via purgativa (l’anima si libera della lussuria, del mondo e del diavolo) Via contemplativa: meditazione e concentrazione dell’anima Via unitiva: unione con Dio. Percorso di Ossorio: 1) Madrid (capp. I-VIII): l’anima incontra il peccato 2) Guadarrama (capp. IX-XV): via purgativa. 3) Meseta castigliana (capp. XVI-XIX): prosecuzione della via purgativa. 4) Toledo (capp. XX-XXXI): via contemplativa 5) Yécora e Marisparza (capp. XXXII-XLIV): prosecuzione della via contemplativa. 6) Levante (capp. XLV-LX): via unitiva.
Camino de perfección (pasión mística) (1902) Fernando Ossorio, protagonista del romanzo di Pío Baroja Camino de perfección (1902), è un pittore che dipinge poco ma pensa e osserva molto. La sua condizione inquieta di viaggiatore dà occasione a descrizioni di paesaggi, di luoghi abitati, di edifici, di interni, che gradualmente arrivano a dominare un testo nel quale in apparenza non succede molto. Al di là della funzione episodica del materiale descrittivo, che ricorda al lettore il carattere erratico del protagonista, la cui azione caratteristica consiste nell’uscire da un luogo per mettersi a camminare, accumulando così patrimoni visivi, l’insieme delle descrizioni acquisisce nello sviluppo del romanzo altre funzioni, soprattutto quella di evidenziare la prospettiva soggettiva del pittore Fernando Ossorio, e quindi di rappresentare figurativamente la contrapposizione ideologica latente nel protagonista, che accompagna lo sviluppo della sua attrazione per due diversi poli: quello della cultura da una parte (qui l’arte e la religione a simboleggiare la morte) e della natura dall’altra (a simboleggiare la vita).
Presentato dal narratore nella prima pagina del romanzo come «un ragazzo […] dagli occhi inquieti» (cap. I, p. 7), sintomo dell’irrequietezza che caratterizzerà il personaggio, Fernando Ossorio include tra le sue stranezze quella di collezionare nella sala di dissezione della Facoltà di Medicina «tutti gli scapolari, le medaglie, i nastri e gli amuleti presenti sui cadaveri» : è la prima delle numerose associazioni tra la religione e la morte collocate lungo il percorso del testo. Di seguito veniamo informati di una predilezione più nobile del personaggio: […] parlavamo di pittura, arte che egli coltivava da dilettante. Mi diceva che lui Velázquez lo considerava troppo perfetto per esserne entusiasta; Murillo gli pareva antipatico; i pittori che lo affascinavano erano quelli spagnoli anteriori a Velázquez, como Pantoja de la Cruz, Sánchez Coelho e soprattutto El Greco» (p. 8). Quest’ultima preferenza anticipa il rito di contemplazione che Fernando Ossorio compie di fronte a varie opere del pittore a Toledo. La prima allusione alle prove concrete dell’affezione alla pittura si trova in un brano in cui il narratore indica le sue impressioni davanti alle opere grafiche di Ossorio, impressioni che contribuiscono a caratterizzarlo come un personaggio soggetto a tensioni complesse, non esenti da contraddizioni.
Il dialogo successivo, che contrappone teorie estetiche, nel caratterizzare il narratore con l’interesse per la letteratura implica en passant una allusione all’abbandono della piena vigenza del naturalismo zoliano nella teoria del romanzo, il cui risultato –sotto l’apparenza di una biografia fittizia– è la narrazione che stiamo leggendo, e inoltre stabilisce una possibile interrelazione tra le due arti, quella pittorica e quella letteraria, un nesso che verrà testimoniato dalle numerose descrizioni nel libro. Tuttavia, attribuendo soprattutto a Fernando Ossorio un rigoroso antinaturalismo nella sua opzione decadentista ( «un che di raffinatamente torturato» ), il dialogo sottolinea la scissione ideologica tra arte e natura, oppure la conversione della seconda nella prima: […] vedevo sempre Ossorio […] intento a fare disegni e schizzi nel suo album. Disegnava figure folli, allungate le une, schiacciate le altre; grottesche e ridicole e nel contempo anche piene di spirito e di vita. –Vanno molto bene– gli dicevo io, osservando le figure del suo album–, però non somigliano agli originali. –E questo che c’entra? –replicava lui–. La naturalità è semplicemente stupida. L’arte non deve essere mai naturale. –L’arte deve essere la rappresentazione della natura, caratterizzata dal riflettersi in un temperamento –dicevo io, che allora ero un entusiasta delle idee di Zola. –No. L’arte è la natura stessa. Dio mormora nella cascata e canta il poeta. I sentimenti raffinati sono altrettanto reali di quelli rozzi, ma quelli sono meno goffi. Perciò bisogna cercare qualcosa di acuto, un che di raffinatamente torturato. (pp. 8 -9).
Nella forma di reminiscenza degli anni della sua infanzia, Fernando Ossorio spiega i precedenti della sua inclinazione verso gli oggetti religiosi: «Per alcuni mesi ebbi una grande esaltazione religiosa» e la causa della sua perdurante inquietudine: la morte del nonno «e qualcosa di doloroso che venni a scoprire nella mia famiglia mi turbarono l’anima» (p. 10). Quell’elusivo «qualcosa di doloroso» – «qualcosa» è una parola chiave, che nelle sue ripetizioni caratterizza il personaggio– resterà un enigma non chiarito, mentre persisterà la presenza della morte come un intenso fattore di cruccio. La vocazione del condiscepolo per l’arte viene confermata dal narratore alla fine del primo capitolo: «un giorno lo incontrai, e mi disse che aveva abbandonato la carriera, che si dedicava alla pittura definitivamente» (p. 11).
2. Nel secondo capitolo vediamo già Fernando Ossorio nelle vesti di pittore, ma la sua condizione di marginalità non è cambiata, perché egli è un pittore senza successo, la cui visione anomala dell’arte si trova fatalmente al di fuori di ciò che viene accettato dalla critica: Alla mostra delle Belle Arti, alcuni anni dopo, vidi un quadro di Ossorio collocato nelle sale del piano di sopra, dove era riunito il peggio di tutto, il peggio secondo le concezioni della Giuria. Il quadro rappresentava un’abitazione povera con un sofà verde e sopra c’era un ritratto ad olio. Nel sofà, seduti, due ragazzi alti, pallidi, elegantemente vestiti di nero; una giovane dai quindici ai sedici anni in piedi poggiava il braccio sulla spalla del fratello maggiore, e una bambina dalla gonna corta, vestita anch’essa di nero. Attraverso la finestra aperta si vedevano i tetti di un agglomerato industriale, il cielo attraversato da cavi piccoli e grossi e il fumo delle ciminiere di cento fabbriche saliva gradatamente nell’aria. Il quadro si chiamava Ore di silenzio. Era dipinto in modo diseguale, ma c’era nel suo insieme un’atmosfera di sofferenza contenuta, un’angoscia, qualcosa di così vagamente doloroso da affliggere l’anima. Quei giovani a lutto, nella stanza abbandonata e triste, di fronte alla vita e al lavoro di una grande capitale, incutevano paura. Nei volti allungati, pallidi e aristocratici dei quattro si intuiva un’esistenza di raffinatezza, si capiva che nella stanza era accaduto qualcosa di molto doloroso; forse l’epilogo triste di una vita. Si avvertiva in lontananza una terribile catastrofe; quella grande capitale, con le sue ciminiere, era il mostro che avrebbe trangugiato i fratelli abbandonati.
Nel commento del narratore possiamo osservare da un lato la tecnica descrittiva, che adotta la divisione in diversi piani di profondità –qui suggerita dal dipinto medesimo– divisione usata abitualmente nelle descrizioni successive di paesaggi, delle quali anticipa anche la dimensione temporale, presente qui nella sorprendente espressione «saliva gradatamente nell’aria» , un’aggiunta narrativa di una dimensione che il quadro come tale non possiede, se non nell’immaginazione dell’osservatore. Dall’altro lato notiamo l’interpretazione del narratore, in cui le espressioni «qualcosa di così vagamente doloroso» e «qualcosa di molto doloroso» ricordano quel «qualcosa di doloroso» che costituisce l’enigma del passato di Ossorio, mentre «raffinatezza» evoca quel «qualcosa di raffinatamente torturato» che il pittore in erba aveva enunciato tra i suoi ideali estetici. Il dolore ha nel quadro il colore del lutto, della morte, e vi incombe sopra l’artificio della città industriale, definita come un «mostro» vorace.
Il dialogo successivo con il pittore è l’occasione perché questi aggiunga sfumature alla propria estetica, con espressioni che di nuovo si contrappongono alla formula di Zola – non è la natura bensì lo spirito delle cose quello che secondo Ossorio l’arte riflette–, e, stavolta in riferimento ai pittori contemporanei, essi sottolineano il primato dell’idea e del sentimento sulla tecnica e sulle regole: Contemplavo assorto il quadro, quando mi si parò davanti Ossorio. Aveva l’aspetto di un vecchio; […]. –Senti, questo è davvero molto bello– gli dissi. –È quello che credo anch’io; qui però l’hanno ficcato in quest’angolo e nessuno si occupa del mio quadro. Questa gente non capisce un bel niente. Non hanno capito Rusiñol, né Zuloaga, né Regoyos; me, che non so dipingere come loro, ma che ho un ideale artistico più grande, non possono che capirmi ancor di meno. –¡Bah! ¿Tu credi che non capiscono? Quel che fanno è non sentire, non simpatizzare. –È la stessa cosa. –E qual è quel tuo ideale così grande? –[…] l’arte, ciò che noi chiamiamo così con una certa venerazione, non è un insieme di regole, nulla del genere, bensì è la vita; lo spirito delle cose, riflesso nello spirito dell’uomo. Il resto, la faccenda della tecnica e dello studio, è tutto una m… –Già, certo, già. Hai dipinto il quadro a memoria –neh? –, senza modelli. –¡Ma certo! È così che si deve dipingere […] (cap. II, pp. 13 -15)
Avere dipinto il quadro «senza modelli» ribadisce l’antinaturalismo dell’estetica di Ossorio, ma nello stesso tempo prepara la contrapposizione rispetto alle ultime prove della sua vocazione pittorica nella parte finale del romanzo. Nel medesimo capitolo il narratore ci offre un’altra descrizione, che rispetto a quella precedente si presenta come opposizione tra spazio chiuso –quello del museo, quello del quadro– e spazio aperto –il panorama–; in confronto al quadro, in cui il cielo, attraversato dai segni dell’artificio, era un minimo residuo di natura, ora sono il cielo puro e i colori del sole ponente, così diversi da quelli del quadro, a dominare in prima istanza lo spazio descritto. Uscimmo dal Palazzo delle Belle Arti. Ci soffermammo a contemplare il calare del sole, da uno dei declivi vicini. El cielo era puro, limpido, azzurro, trasparente. In lontananza, dietro un filare di alti pioppi dell’Ippodromo, il sole si occultava, emanando i suoi ultimi splendori arancioni sopra le chiome verdi degli alberi, sopra i colli vicini, nudi, sabbiosi, ai quali conferiva un colore ramato e d’oro pallido. La catena di montagne spiccava come una macchia blu violacea, dolce, nella fascia dell’orizzonte prossima al terreno, che era di un giallore da opale; e sopra quell’ampia striscia opalina, su quello sfondo da mistica pala d’altare, si profilavano nitidamente, come nei dipinti dei vecchi e coscienziosi maestri, la sagoma ritagliata di una torre, di una ciminiera, di un albero. Verso la città il fumo di qualche fabbrica macchiava il cielo blu, infinito, immacolato… Quando il sole si nascose si fece più violacea la muraglia della terra; gli ultimi raggi ancora illuminavano un picco lontano da ponente, e le altre montagne restavano avvolte da una nebbia rosata e splendida, di carminio e d’oro, che sembrava strappata da qualche apoteosi di Tiziano […]
Tra le due descrizioni, quella del quadro e quella del panorama, si stabilisce il nesso esplicito del «fumo delle ciminiere di cento fabbriche» e «il fumo di qualche fabbrica» , con differenza di intensità, e d’altronde il narratore corrobora il parallelismo attraverso il verbo «contemplare» che si riferisce a un medesimo atteggiamento di osservazione: «Contemplavo assorto il quadro» e «Ci soffermammo a contemplare il calare del sole» . Un tramonto che viene visto come un quadro: «come nei dipinti dei vecchi e coscienziosi maestri» e «qualche apoteosi di Tiziano» sono paragoni che alludono alla prospettiva pittorica di entrambi gli osservatori, prospettiva che avendo in comune il plurale del verbo è la premessa perché il narratore possa adottarla in quanto segue, per raccontare con naturalezza le impressioni del pittore Fernando Ossorio di fronte a spazi che non sono quelli di un quadro, ma che vengono osservati con un occhio pittorico, ad eccezione del fattore tempo, che nella descrizione citata sopra abbiamo riscontrato nella descrizione dei mutamenti cromatici: «si fece più violacea» , «restarono di un colore grigio» , e dei complementi acustici evocati, come «Si sentiva […] la cadenza ritmica» .
Il panorama citato presenta uno spazio di transizione tra il villaggio e la città, tra «un gregge di capre» e «i tranvai elettrici» : due modalità di esistenza che a loro volta si presenteranno come opzioni per il protagonista nelle sue peripezie, anticipando un altro paragone pittorico: «L’andirivieni dei cocchi sul viale della Castellana aveva un po’ quell’effeminatezza di un paesaggio di Watteau» (p. 18). Nella chiusura della visione panoramica, il paesaggio urbano appare situato su di un piano inferiore della prospettiva contro il plano alto del paesaggio naturale: «Il cielo era blu, di un blu liquido: sembrava un immenso lago sereno, nelle cui acque si riflettessero timidamente alcune stelle» (p. 18).
3. Nel terzo capitolo l’incostante eroe del romanzo sembra avere abbandonato ormai ogni vocazione artistica o intellettuale nella sua situazione di crisi. Accompagnati dal narratore ci affacciamo nel suo studio: Vi si sentiva un’aria di amara desolazione: i bozzetti, prima appuntati sulle pareti, dipinte di azzurro, stavano buttati sul pavimento, arrotolati; il tavolo, pieno di carabattole e di polvere; i libri, disfatti, ammucchiati in un armadio. (p. 25) La morte dello zio-nonno comporta vantaggi materiali per Fernando Ossorio, che si insedia nella casa delle zie. Nelle ore morte, cioè in quasi tutte le ore del giorno, contempla pareti di colore giallino e le screpolature del soffitto. Il suo rapporto con l’arte viene citato dall’osservazione che «Sulle pareti […] Aveva riunito […] i quadri migliori della casa, mentre prima erano collocati nei posti più bui» (p. 36). Abbandona la sua vita da bohèmien, ma in poco tempo si stufa pure della «sua vita elegante» (p. 38), per cominciare ad avere, all’inizio del sesto capitolo, «certe idee ascetiche» (p. 42), il che non gli impedisce di intrattenere rapporti sensuali con la zia Laura, rapporti che gli provocano degli incubi: «sognava di camminare per una pianura castigliana secca, riarsa, e che il cielo era bassissimo, e che calava sempre di più, ed egli si sentiva sul cuore un’oppressione terribile, e cercava di respirare e non ci riusciva» (pp. 45 -46). Questo sintomo di oppressione anticipa la tappa successiva della sua irrequietezza, l’abbandono della città e il viaggio attraverso i paesaggi della Castiglia.
Un altro fenomeno visionario è quello che patisce dopo un tentativo di sacrilegio con Laura in una chiesa: Di notte, mentre si infilava nel letto, senza sapere perché gli apparve nitidamente sulla carta da parati della sua stanza un Cristo grande che lo osservava. Non era un Cristo vivo di carne, né un’immagine di Cristo: era un Cristo mummia. Fernando vedeva che i capelli erano quelli di una donna, la pelle di pergamena, gli occhi dovevano essere di un’altra persona. Era un Cristo mummia, che sembrava essere risuscitato in mezzo ai morti, con carne e ossa e capelli in prestito. (cap. VII, p. 52) L’immagine evoca le deformazioni dei primi disegni di Ossorio, e nello stesso tempo l’associazione tra la religione e la morte già riscontrata nella sala di dissezione. Fernando affronta di nuovo la morte quando, atterrito dall’apparizione mostruosa, ricorre a una forma di fuga che accentuerà il suo turbamento in capitoli posteriori: «esce per strada» (p. 55) e nella periferia della città vede dei capi di bestiame condotti al mattatoio.
Nei capitoli successivi il pensiero dell’apparizione non lo lascia, e decide allora di seguire il consiglio di un vecchio condiscepolo di facoltà: andarsene da Madrid. La prima parte del percorso è dominata da cromatismi scuri e dalla paura, ma nel capitolo XI l’alba si presenta con segni più ridenti nella natura, se non nella gente scontrosa, e Fernando Ossorio recupera per un momento lo sguardo del pittore di fronte a questa scena: Presso un muro di cinta fatto di mattoni crudi color terra i ragazzini giocavano sopra un carro di buoi; un asino sdraiato per terra, a zampe in su, tirava allegramente dei calci. Nell’androne della casa antistante, dall’aspetto miserabile, una vecchia con una sottanina di panno color carminio messa come un manto sulla testa, spulciava un ragazzino assopito tra le sue gambe, che portava anche lui una sottanina di panno giallognolo. Era una macchia di colore così vivace e armonica che Fernando si sentì pittore e avrebbe voluto avere una tela e pennelli per mettere alla prova la sua abilità. (pp. 80 -81)
Certo, se Fernando avesse avuto tela e pennelli avrebbe dipinto un quadro di genere: questo «elogio del villaggio» , così diverso dal suo Ore di silenzio, è un segnale implicito del cambiamento che la sua estetica subisce nel pellegrinaggio rurale. L’indizio fa presagire anche la sua futura opzione panteistica: «La sua vita era una cosa inconcreta, quanto una di quelle nuvole svigorite che a poco sfumava nel seno della natura» (p. 81). Riflessione apparentemente negativa, che acquista tuttavia tonalità diverse alla fine del capitolo XIII, quando nel cimitero di un convento Fernando medita sulla tomba di un vescovo: Quant’è bello e poetico il cadavere del vescovo in quel campo tranquillo! Quale gioia quella degli atomi nel rompere la forma che li imprigionava, nel fondersi con esultanza nella nebulosa dell’infinito, sul sentiero del mistero dove tutto si perde! (p. 91).
Ci troviamo di fronte a un modo di accettare la dissoluzione della morte individuale nel ciclo perenne della natura, che si contrappone al finale di un altro capitolo, in cui il cadavere dello zio-nonno «marciva tranquillamente nella bara» (cap. IV, p. 34), –come annota con sarcasmo il narratore–, in mezzo all’indifferenza di tutti i presenti nella casa. Nello stato d’animo conseguente a questa forma di momentanea calma, «Fernando pensò che sarebbe stato di grande voluttuosità sdraiarsi all’ombra nel cimitero» (cap. XIV. p. 93), luogo dove si produce poi l’incontro con un viaggiatore tedesco (poco importa la sua nazionalità, dato che nel romanzo rappresenta l’Altro), il quale professa il culto di Nietzsche. Questo personaggio propone a Ossorio di salire sulla montagna, ascensione simbolica nella quale il protagonista abbandona la pianura e il caldo opprimente per affrontare un paesaggio primigenio e il rischio di morire. Di fronte a un paesaggio che diventa oggetto di un’accurata descrizione, ricca di sfumature cromatiche e di movimento dei piani, Fernando assume un atteggiamento di distanza critica, come se fosse davanti a un quadro, e non riesce a condividere la visione panteistica dello straniero: «–A me quei monti – mormorò Ossorio– non danno l’idea di essere veri; mi sembra che siano dipinti, che siano un fondale da teatro. […] –Per me quei monti –disse Schultze – sono Dio. » (cap. XV, pp. 100 -101).
4. Nell’alba negativa del capitolo XV apparivano associati nel colore rosso sinistro il sangue e il fuoco ( «luce infernale» , «fulgore malsano» ); il fuoco è un elemento che domina gran parte del viaggio di Ossorio attraverso la Castiglia, per mezzo dell’immagine reiterata di un sole implacabile il cui fuoco produce aridità, polvere e caldo opprimenti, che solo in rare occasioni cedono il passo a istanti di refrigerio, a macchie di verde, alla presenza dell’acqua. Lo stretto rapporto tra il paesaggio e il viandante si intensifica nel capitolo XIX, durante il tragitto verso Toledo, nel quale «le terre grigie, quasi incolori, vomitavano fuoco» , mentre il pellegrino soffre ardori febbrili: «trascorse così dieci giorni malato in una stanza buia, vedendo forni, boschi incendiati, terribili irradiazioni luminose» (p. 130), che provocano negli occhi del pittore una significativa cecità. La perdita momentanea della vista segna l’inizio della sua permanenza a Toledo e produce tra le riflessioni di Ossorio la contrapposizione tra il «mondo di dentro» e il «mondo di fuori» , in cui vince di nuovo la scelta soggettivista: «il mondo di fuori non esiste; esso ha la realtà che io gli voglio dare» (p. 133). Ma non appena recupera l’uso della vista, Fernando torna ad esercitare il suo sguardo da pittore: Tra quelle donne ce n’erano alcune che indossavano sottane e manti di panno dai colori ignoti nel mondo civile, dal tono così succoso, così caldo, così vivo, che Fernando pensò che soltanto lì il Greco poté vestire le sue figure con i panni splendidi con cui le vestì. (cap. XXI, p. 136). […] una vecchia cieca e babbea che aveva l’aspetto di una strega di Goya […]. (p. 139).
A Toledo, «borgo secolarizzato» , come constata Ossorio, in cui «Solo dall’aspetto artistico della città si poteva intuire una fede che nelle coscienze non esisteva più» (p. 146), il nesso tra arte e religione è completato dalla morte attraverso la contemplazione di un quadro di El Greco, La sepoltura del conte di Orgaz, che arriva ad essere oggetto di culto per il pittore, a partire dal capitolo XXIII, nel quale Fernando –che cammina senza una meta per la città e, nonostante la conoscesse, «non riusciva mai ad orientarsi» (p. 149), sintomo del suo disorientamento interiore – entra nella chiesa di San Tommaso: La chiesa era buia. Fernando entrò. Nella cappella, sotto la cupola bianca, lì dove si trova La sepoltura del conte di Orgaz, ci si vedeva a malapena; una luce fioca segnalava vagamente le figure del quadro. Ossorio completava con la sua immaginazione ciò che non riusciva a percepire con gli occhi. […] Nell’ambiente scuro della cappella quel quadro sembrava una cavità orrida, tenebrosa, abitata da fantasmi inquieti, immobili, pensierosi. Le vampate violacee delle torce con ceri ondeggiavano vagamente nell’aria, dolenti come anime in pena. Della gloria celeste, aperta quando l’Angelo Custode rompe le nubi massicce che separano il cielo dalla terra, non si vedeva altro che grandi macchie nere, confuse. D’un tratto i vetri della cupola della cappella furono feriti dal sole ed entrò un torrente di luce dorata nella chiesa. Le figure del quadro uscirono della loro cavità. La mitra brillò […] ebbero risalto […] il capo dolente del conte di Orgaz e il suo corpo […] Nella fila comparvero personaggi severi, anime d’ombra, anime dure ed energiche, circondate da un alone di pensiero e di dolorose angosce. Il mistero e il dubbio aleggiavano sulle fronti pallide. Atterrito dall’impressione che ciò gli destava, Fernando sollevò gli occhi, e nella gloria aperta dall’angelo dalle grandi ali sentì riposare la propria anima nelle alture dove dimora la Madre cerchiata di eucaristica bianchezza nello sfondo della Luce eterna. Fernando sentì come una frustata nei nervi, e uscì dalla chiesa.
La descrizione si divide in due momenti, marcati dalla scarsità e dall’abbondanza di luce, che riflettono la coesistenza nell’osservatore di istanze interiori in conflitto. La penombra (vi si trova un’allusione negativa al fuoco nelle «vampate violacee» ) impedisce la piena visione del quadro, e con ciò la percezione dei suoi due spazi simbolici, la terra e il cielo. La luce che irrompe nell’ambiente instaura questo asse verticale tra il piano delle «angosce» e quello della «gloria» : appartiene al prima la figura del morto, di cui risalta nella visione di Ossorio «il capo dolente» del conte, che evoca la medesima espressione usata per il Cristo moribondo nel «quadro del Calvario» del capitolo XVI. Nel piano superiore lo sguardo di Fernando seleziona, tra varie figure possibili, la mediazione ottica e simbolicamente protettrice dell’Angelo Custode, e la presenza della Madre, associata nell’impressione di Fernando alla quiete dell’anima. Questo orientamento dello sguardo del personaggio ha come precedente nel romanzo la menzione dei suoi dolori infantili, di cui si ha traccia nel primo capitolo: «i miei genitori […] non mi amavano. […] Mia madre […] non voleva avermi accanto» (pp. 10 -11).
Incapace di sopportare il conflitto di sentimenti che gli provoca la sua interpretazione del dipinto, Fernando replica la soluzione abituale per lui: scappare. Esce cercando nello spazio esterno qualcosa che lo distragga dalla sua dolorosa interiorità, ma questa fatalmente finisce col proiettarsi in ciò che vede, perché la sua immaginazione esercita una trasformazione visionaria di quello che lo sguardo percepisce, intensificando il rapporto tra oggetto e soggetto che Ossorio aveva enunciato come premessa estetica, «lo spirito delle cose riflesso nello spirito dell’uomo» . Le tensioni, anche religiose, persistono in lui, e allora si rivolge al quadro di El Greco come a un oracolo: «In altre occasioni, quando era turbato, andava a San Tommaso a contemplare di nuovo La sepoltura del conte di Orgaz, e lo consultava e interrogava tutte le figure» (p. 159). Un altro quadro di El Greco, il ritratto del cardinale Tavera che Fernando va a vedere nell’Ospedale di Fuori, gli provoca la stessa reazione della sua prima visita a San Tommaso, un atteggiamento comprensibile se si considera la sua impressione: «Eccolo, dal lato destro dell’altare maggiore: era una cornice piccola che racchiudeva uno spettro dall’espressione terribile, dal colore terroso, con la fronte stretta. Fernando uscì dalla chiesa» (p. 162). Tra la lettura degli esercizi ignaziani –nei quali Fernando sottolinea «un fondo di volontà, di forza; un anelito a conseguire la felicità ultraterrena» (cap. XXVI, p. 164) sperando di scoprire il fondo dell’anima– e la compagnia insulsa della cerchia di conversatori –uno di loro definisce Toledo come «la città della morte» (p. 173)–, si stabilisce nel capitolo XXVIII una connessione inaspettata:
«Dopo venne citato El Greco. Qualcuno raccontò che due pittori impressionisti, catalano l’uno e l’altro basco, erano andati a vedere La sepoltura del conte di Orgaz di notte, alla luce dei ceri» (pp. 175 -176). Quello che per i compagni di chiacchiere è un passatempo, per Ossorio è una profanazione del suo culto segreto: Fernando rabbrividì senza sapere perché. Gli sembrava una irreverenza mostruosa andare a vedere quel quadro con il cervello intorpidito dai vapori del vino. Pensava a quella città dei suoi sogni, piena di ricordi e di tradizioni, abitata dalla borghesia stupida. […] fosse per l’eccitazione del suo cervello o perché le vampate dei ceri illuminavano in un modo tetro le figure del quadro, Ossorio sentì un’impressione terribile, e dovette sedersi nel buio, in un banco, e chiudere gli occhi. (p. 176)
Rispetto alla prima visita, manca in questa circostanza l’irruzione della luce solare, e la confortante sensazione di verticalità esperita in quell’occasione; qui implicitamente a dominare è il solo piano inferiore del quadro, quello delle angosce, illuminato, nuovamente, da guizzi di fiamma e di lì l’impressione negativa che suscita in Ossorio. Ancora una volta Ossorio esprime la sua inquietudine in uno dei suoi soliti vagabondaggi. Di fronte a un panorama notturno, egli prova una verticalità completamente negativa: da una parte «Fernando sentiva la vertigine guardando verso il basso il fondo del dirupo, dove il fiume sembrava stesse limando le fondamenta di Toledo» ; dall’altra parte, «Sopra un monte, alla luce della luna, si profilava spoglia e sinistra la sagoma di una croce che Fernando credette lo richiamasse con le sue lunghe braccia» (p. 177), una visione che evoca il «quadro del Calvario» . Con essa termina il capitolo, e parimenti l’attrazione esercitata da La sepoltura del conte di Orgaz, dato che in quest’occasione il protagonista ha subìto il dominio del polo della morte.
L’altro aspetto della polarità si ripresenta in un successivo momento di turismo artistico: nel convento di San Domenico Antico «Ammirò dopo, nelle tavole collaterali, due quadri che gli sembrarono meravigliosi: una "Resurrezione" e una "Natività", e si avvicinò al pulpito della chiesa quando vide una "Veronica" dipinta in bianco e nero» (cap. XXIX, p. 181). In questa menzione, apparentemente casuale, mentre il polo della morte, la «Veronica» , suscita curiosità, l’entusiasmo di Ossorio si manifesta in modo evidente per i due quadri che rappresentano il polo vitale. Sembra appartenere al medesimo paradigma il passatempo cui si dedica il personaggio nel capitolo successivo, che ce lo presenta nel ruolo di corteggiatore di monache. L’episodio viene introdotto dal narratore con un’altra visione pittorica: Nell’ambiente buio si vedevano tre monache inginocchiate, con il manto bianco come il piumaggio di una colomba e il velo nero sulla testa. Alla luce filtrata e dolce che entrava depurata attraverso le grandi cortine del coro, quelle figure presentavano la simmetria e il contrasto forte da chiaroscuro di un quadro impressionista (p. 181).
Tuttavia, ci sono tratti nelle suore che alludono di nuovo alla morte. Le mani della monaca corteggiata «erano ossute, con dita lunghe, magre, che quando si incrociavano per pregare, quelle di una mano con l’altra formavano come un mucchio bianco di ossa» (p. 182), e nel suo volto domina l’elemento del fuoco: «quella donna dalla faccia pallida, dagli occhi neri pieni di fuoco e di passione» (p. 184). Tetro è il ritratto della monaca di guardia, che si oppone al tentativo del corteggiatore: «una vecchia dalla faccia terrosa […] pareva uno spettro, una faccia da matta, allucinata e furiosa» ; descrizione che è una caricatura del ritratto del cardinale Tavera dipinto da El Greco, secondo il conciso riferimento del capitolo XXVI. Il tentativo di profanazione del sacro, che ricorda quello già visto nel capitolo VI, questa volta non ha come conseguenza un’apparizione immediata come quella del Cristo mummia, però nella crescente inquietudine di Fernando le percezioni dei nessi religiosi gli producono impressioni ormai non più dolci, come in altre circostanze, bensì costantemente negative: «provò una grande agonia nello spirito sentendo le vibrazioni lunghe delle campane della cattedrale» (cap. XXX, p. 186); nel guardare una processione di preti e di chierichetti «li si vedeva procedere tutti come fantasmi» (p. 187). Il panorama-quadro di Toledo, paesaggio insieme naturale e culturale, conferma la sua condizione di «città della morte» : All’imbrunire da là sopra Toledo aveva un aspetto severo, maestoso; dal pendio del Belvedere il paesaggio dei dintorni assumeva una tonalità gialla, ramata, come quella di certi quadri di El Greco, che cessava quando la sera calava in una tinta calcarea e cadaverica. (p. 188)
In un’altra delle sue passeggiate erratiche la città gli si tramuta in un labirinto, simbolo del suo smarrimento, e nelle strade ogni lampada gli appare «circondata da un nimbo spettrale» (p. 188). Dopo aver visto passare una bara bianca, sulla quale «brillavano in un modo sinistro la croce e i listelli dorati della cassa » (p. 189) e avere avuto sotto un lampione la visione del «fantasma di un gigante nella stessa posa delle statue giacenti delle sepolture della cattedrale» , Ossorio è ancora capace di una reazione, giacché si sente disposto «a lottare strenuamente con quell’onda di cose strane che stavano per inghiottirlo, per divorarlo» (p. 191). Nel capitolo seguente, il XXXI, la reazione di Fernando a quell’onda mortifera somiglia all’episodio di corteggiamento della monaca. Nella pensione in cui alloggia Fernando si interessa ad Adela, una ragazza ridente il cui sembiante promette allegria, dolcezza, serenità: «La sua testa bionda, dalla cute molto bianca, avrebbe potuto essere quella di un angelo di Rubens, un po’anemico» (cap. XXI, p. 142): è in definitiva l’immagine dell’innocenza quella che Ossorio pretende ora di corrompere, zittendo i propri scrupoli. Ma quando passa all’azione torna a percepire i segni della morte: Ossorio entrò nella stanza, prese la ragazza nelle braccia, la strinse forte e la baciò sulla bocca. La sollevò in aria per deporla sul letto, e nel guardarla la vide pallida, con un pallore da morto, mentre piegava la testa come un iris spezzato. Allora Fernando sentì un brivido convulsivo, e gli tremarono le gambe e gli batterono i denti. Vide raffiche di luce, cerchi luminosi e spade di fuoco. Fremendo, come un infermo al midollo, uscì […]. (p. 196)
Le premesse cromatiche si trovavano già in quel «ritratto di Rubens» ; la «cute molto bianca» è interpretata ora come «pallore da morto» , ma il fatto determinante è l’atteggiamento della testa, reminiscenza di quella che Fernando aveva dipinto con l’immaginazione nel «quadro del Calvario» : «l’Uomo Dio che viene meno piegando il capo dolente sulla spalla nuda» , e, soprattutto, di quella che ha osservato ripetutamente a San Tommaso, «il capo dolente del conte di Orgaz» . Questa contaminazione di un corpo pieno di vita, quello di Adela, con il segno della morte, produce nel protagonista una reazione analoga a quella indotta dall’apparizione del Cristo mummia a Madrid: lì «Mille luci gli ballavano negli occhi; raffiche brillanti, spade d’oro. Sentiva come avvisi di convulsioni che lo spaventavano» (p. 52). Non ci meraviglia che le spade d’oro qui siano spade di fuoco, elemento che il narratore ci ha già abituati ad associare alla morte. E come allora Ossorio scappa, abbandona Toledo, la città dei suoi sogni. Rimane, tuttavia, un’orma della sua decisione di lottare con l’onda di ombre nella riflessione con cui si consola del fallito intento sessuale: «Cominciava a sentire come un vero piacere il non essersi fatto trascinare dai propri istinti. No, non era solo l’animale che compie una legge organica: era uno spirito, era una coscienza» (p. 199).
5. Il ricordo di un’altra seduzione, in quel caso portata a compimento, costituisce il pretesto per la tappa successiva, che si svolge in un «posto terribile» (cap. XXXIII, p. 207), Yécora. Definito da negazioni, soprattutto dall’assenza dell’arte, rappresentata solo da «quadri scadenti» (pp. 211, 212), Yécora è in questo senso l’antitesi di Toledo, e rappresenta infatti l’ambiente necessario perché l’arte possa scomparire dall’orizzonte di Ossorio. Si respira nella città un ambiente ostile a tutto ciò che sia espansione, elevazione dello spirito, simpatia umana. L’arte è fuggita da Yécora. […] La vita a Yécora è cupa, tetra, repulsiva; non ci si sente la gioia di vivere; invece pesano sulle anime le cose sordide della vita (p. 208). La visione panoramica di Yécora non offre piani di profondità né variazioni cromatiche. È semplicemente «una tavola da scacchi» (cap. XXXV, p. 217). Nulla evoca quadri di vecchi maestri, né suscita in Ossorio il desiderio di dipingere un quadro. Tra le due possibilità che il protagonista, abulico per tendenza, intravede, è facile presagire –nelle condizioni attribuite di «anemia morale» (p. 228), e per la persistenza di un passato per lui doloroso a Yécora, rappresentato dal collegio degli Scolapi– che l’esito più probabile sia quello negativo: Ossorio voleva rimanere per un po’ di tempo a Yécora; sperava che lì la sua volontà svenevole si ribellasse e cercasse una vita energica, o finisse per prostrarsi accettando definitivamente una esistenza monotona e volgare. (cap. XXXV, p. 223)
Un’ulteriore contrapposizione tra città e villaggio introduce tuttavia una novità nell’esistenza monotona alla quale Ossorio si è condannato. Il suo trasferimento alla casa di campagna di Marisparza non si apre con un segnale vitale, se teniamo conto dei precedenti: «qualcuno […] aveva dipinto con il gesso una croce grande che spiccava bianca sullo sfondo sporco del muro» (cap. XXXIX, p. 238). Né risulta più corroborante il paesaggio: «I dintorni di Marisparza erano nudi, paraggi di un’adustezza tetra […] di una desolazione assoluta e completa» (cap. XL, p. 241), ma nella sua inerzia Fernando decide di rimanere, senza sapere che fare, senza interessi. Di fatto, in questo anti-Toledo rurale si produce un’esperienza di apprendistato che inverte le condizioni del passato. Ossorio impara l’apatia: «quella vita monotona cominciò a dare ad Ossorio una certa indifferenza per le sue idee e sensazioni» (p. 244) ed egli finisce per dimenticare il pensiero, mentre la religione perde la sua forza attrattiva e l’intima concatenazione con l’arte, così importante per lui: «Lì capiva […] la religione cattolica […] secca, adusta, fredda, senz’arte, senza cuore, senza viscere» (p. 245). Come anche si capovolge in questa vita il rapporto sentimentale e soggettivo con la realtà: «Nel porsi in contatto con la terra, questa lo faceva entrare nella realtà» (p. 247); evoluzione che ha luogo a scapito degli ideali precedenti, compresi quelli artistici. La metamorfosi risulta evidente quando a Yécora Ossorio assiste a una cerimonia tradizionalmente molto significativa per lui in passato, la processione del Giovedì Santo. Anche se la forma impersonale del verbo offre la descrizione da una prospettiva generale, ciò che si presenta allo sguardo del protagonista non differisce dalle sue impressioni finali a Toledo, vale a dire il legame tra religione e morte:
Si vedeva comparire la processione sulla strada in pendio, come un corteo di ombre lugubri e terribili. […] si sentiva la minaccia di una religione morta, che nel rivivere per un momento e nel rivestirsi con i suoi ornamenti sfarzosi, mostrava il pugno chiuso alla vita. […] Era il colmo di quel che è tetro, lugubre, malsano. (cap. XLII, p. 253) Però più che paura Fernando questa volta prova indignazione, e non lo impressiona nemmeno il culto dell’agonia di Cristo in una chiesa. Nei capitoli successivi il protagonista resiste al tentativo di catechizzazione di un giovane Scolopio, e in un dialogo con lui dichiara il risultato delle sue riflessioni recenti, esito che il suo interlocutore qualifica come panteista: Io suppongo o credo che c’è in tutte le cose, in quell’erba, in quell’uccello, in quel monte, nel cielo, qualcosa di invariabile, di immutabile, che non si può cambiare, che non si può annichilire… No… Nell’intimo credo che tutto è fisso e immutabile […] è infinito. […] Il male è l’ombra. L’ombra è il bisogno della luce. . […] in rapporto alla natura, fine e principio mi sembrano parole vuote. […] La Morte non esiste, è la sorgente della vita, è come il male, un’ombra, una notte pregna di aurora. (cap. XLIII, p. 257) Ossorio cancella in questo modo nel ricorrere della natura la sua ossessione, la presenza della morte. «L’ombra è il bisogno di luce» è un‘ottima sintesi della sua prima esperienza di fronte a La sepoltura del conte di Orgaz.
Tuttavia, alcune visioni del paesaggio continuano a mostrare gli antichi segnali, come il sangue nel panorama che precede la sua dichiarazione di fede nella Natura: Il calare della sera di una tristezza infinita. […] Si vedevano di qua macchie sanguinose d’un rosso scuro, di là il letto pietroso di un fiume secco. […] il sole ponente con un giallore tetro. (p. 257). O come la vista notturna di Yécora nel capitolo successivo, in cui lo sguardo del personaggio dimostra di non avere perso le sue capacità visionarie: La cittadina sembra strana, fantastica […] strani ammassi di roccia labirintici dalle forme fantastiche, alcuni dall’aspetto umano, tetri, cupi […] altri affilati come coltelli […]. (p. 266) Il latrato di un cane, una forma di aggressione proveniente dalla natura che in circostanze analoghe, durante la sua fuga da Madrid, gli aveva provocato terrore nel capitolo X, diventa qui l’elemento determinante perché Ossorio decida di andarsene da Yécora.
6. Il cambiamento decisivo nella vita del protagonista si produce a partire dall’abbandono di Yécora. Il narratore introduce una demarcazione significativa, apparentemente molto artificiale, e con parecchie strizzatine d’occhio ironiche, in cui dà la parola allo stesso Ossorio: È stato un manoscritto o una raccolta di lettere? Non lo so; dopotutto, che cosa importa? Nel quaderno dal quale io copio, la narrazione continua, solo che nelle pagine seguenti il narratore sembra essere il personaggio stesso. (cap. XLVI, p. 277)
Una conseguenza importante di questa dichiarazione è che il testo che abbiamo letto fino a questo punto sarebbe espressione fedele della soggettività di Ossorio, salvo il fatto che in questo gioco di finzione non conosciamo la portata degli interventi del copiante, eccetto che nei primi capitoli, nei quali compare in prima persona. Il momento in cui si dividono le paternità del testo possiamo situarlo dopo l’episodio in cui entrambi osservano il tramonto a Madrid, nel secondo capitolo, sicché tutte le descrizioni successive apparterrebbero al protagonista della storia. Il testo in cui Ossorio figura come «io» non differisce, per quanto riguarda lo stile, da quello che racconta le sue peripezie in terza persona, se non per una sfumatura di maggiore ingenuità, segno forse della sua nuova condizione, e insieme strumento per farci percepire che l’artificio narrativo adottato dal narratore gli consente di non assumere responsabilità per ciò che riguarda l’entusiasmo e la candida fede dimostrati in queste pagine da Fernando.
Questi scende dal treno a caso, però nella terra di Levante, lontano dalla Castiglia e dal sole implacabile, e si insedia in campagna, dove, annota, tutto è diverso da Marisparza. Tra altre differenze, possiamo notare l’assenza di cipressi. E brilla invece, nell’inno di rigenerazione che Ossorio proclama enfaticamente: […] il grande sole, padre della vita, il grande sole, benevolo, sorride nei campi verdi e chiari […] Oh che primavera! Che primavera bella! Non ho mai sentito come adesso il risveglio profondo di tutte le mie energie, il battito forte e poderoso del sangue nelle arterie. […] il mio spirito, che ha rotto la diga che lo imprigionava, diga di tristezza e di atonia, corre e fluisce cantando con giubilo la sua canzone di gloria, la sua canzone di vita; nota umile, ma armonica nel gran coro della Natura Madre (cap. XLVI, p. 279).
L’incorporazione simbolica al grande coro della natura si manifesta anche nella partecipazione al rito collettivo, in cui Fernando ha abbandonato il suo antico isolamento: «Preghiamo tutti quando iniziamo e quando finiamo di mangiare» (p. 280). Ovviamente non dipinge. «Non dipingo, non scrivo, non faccio nulla, fortunatamente» . E se , come nel finale del capitolo, arriva ad affacciarsi al pensiero della morte, la fede nella natura sbaraglia in un modo quasi precipitoso, la minaccia: […] la terra […] si agiterà, fremendo in continua germinazione, e nelle acque […] spunteranno e si moltiplicheranno miriadi di esseri. E nello stesso tempo di questa germinazione eterna, quale terribile mortalità! Quant’è barbara la lotta per la vita! Ma perché pensarci? Se la morte è deposito, fonte, sorgente di vita, a che serve lamentare l’esistenza della morte? No, non c’è nulla da lamentare. Vivere e vivere… questa è la questione.
Il breve dubbio è un sintomo della tipica incostanza del personaggio, che, nonostante abbia trovato, così assicura, l’equilibrio e la pace, prova «a volte nostalgia delle idee tristi di prima, delle tribolazioni del mio spirito» (cap. XLVII, p. 285). Segno evidente della sua persistente inquietudine è che intraprende un altro viaggio, verso un paese in provincia di Castellón, dove suo zio Vicente sembra avere avverato in modo esemplare l’ideale di comunione con la natura, sposando una contadina. 7. Nonostante «l’assoluta freddezza» (cap. XLIX, p. 289) che la famiglia dello zio oppone al tentativo di integrazione di Fernando, egli insiste, e nel suo sforzo di congraziarsi quel nucleo familiare, ritorna all’antica vocazione di pittore. Inizia il ritratto di Dolores, una ragazza terrestre sia nei colori – «è brunetta, con un colore tostato, quasi di cannella, un colore grazioso» (p. 290), sia perché, come le altre donne della casa, sembra dedicarsi esclusivamente alle piante. Il pittore che si vantava di dipingere a memoria, senza modelli, tradisce in questo modo i suoi principi estetici. Tuttavia, forse come risultato di questa incoerenza, o delle sue nuove idee: Il ritratto non mi viene per quanto mi sforzi, e potrebbe essere una cosa graziosa. La figura snella di Dolores, vestita di nero, spicca stupendamente sul muro di cinta verde, punteggiato di bianco, pieno di macchie scure fatte dalle grondaie. (cap. LI, pp. 297298).
Il trucco che gli viene in mente per risolvere la crisi creativa significa la resa estetica ai principi del realismo, portati all’estremo: Mi sono avvalso di un espediente, vergognoso nell’ambito dell’arte: ho chiesto al mio amico il fotografo la macchina e ho fatto due ritratti: uno di Dolores e un altro della madre, e un gruppo di tutta la famiglia. Poi ci ho dipinto sopra con una miscela di vernice e di colori a olio. Un vero e proprio delitto di lesa arte. I miei ritratti sono sembrati delle vere meraviglie. L’espediente ottiene ciò che Ore di silenzio non avrebbe ottenuto, l’approvazione della nuova giuria, e, finalmente, l’accettazione delle opere dell’autore autoironico. Nell’intimità Fernando conserva ancora una scintilla dei suoi antichi ideali: Quello che ho fatto con piacere è stato un appunto che mi è venuto piuttosto bene: il pavimento, di mattoni rossi; gli scalini, verdi; le macchie rosse dei gerani in fiore sul muro di cinta, e sopra questo il cielo azzurro con striature dorate, e la tifa semicaduta e rovinosa. C’è in questo appunto un che di tranquillità, di riposo.
Ma anche così il dipinto è un'antitesi di Ore di silenzio; qui il pittore rappresenta il suo nuovo ideale, quel «che di tranquillità, di riposo» ; nell’altro c'era, secondo il narratore, «un'atmosfera di sofferenza contenuta, un’angoscia, qualcosa di così vagamente doloroso da affliggere l’anima» . Soprattutto manca il soggetto della sofferenza, poiché l’appunto ha escluso ogni presenza umana, trasferita invece al ridente inganno dei ritratti fotografici. E poi, Dolores «Non comprende che si possano dipingere figure brutte, di cose tristi; non le piace nulla di torturato, né di scuro» . E però nell’appunto c’è un elemento inquietante, «la tifa semicaduta e rovinosa» .
L’importanza della volontà nella trasformazione di Fernando Ossorio, e nello stesso tempo il fatto che il suo fondamentale desiderio di quiete lo costringa a mettersi una maschera, si manifestano quando di fronte a un altro aspirante alla mano di Dolores dichiara: «Io sono deciso ad abbandonare la mia indolenza e ad avere una volontà di ferro. Mi troverò divertente dandomi arie di uomo forte» (cap. LIII, p. 304). La ripetizione di formule analoghe in altri capitoli dimostra la forzatura del suo intento. In un ambiente bucolico: All’ingresso del pergolato, sopra piedistalli di mattoni, ci sono due statue, di Flora e Pomona; al centro, sotto la cortina verde del roseto selvatico, una mensa rustica e panche di legno. (p. LIV, p. 310)
Fernando confida a Dolores le inquietudini del suo passato, prova del fatto che non riesce a dimenticarle, e lo fa con tale insistenza che la ragazza smette di ridere e lo compatisce: – «¡Pobret! –mi disse in valenziano, con una mescolanza d’ironia e di maternità; e non so perché allora mi sentii un bambino e dovetti chinare il capo perché non mi si vedesse piangere» (p. 313). La «maternità» di Dolores ci ricorda che nella visione illuminata de La sepoltura del conte di Orgaz, lo sguardo del personaggio si era concentrato su una delle figure celestiali: «sentì riposare la propria anima nelle alture dove dimora la Madre» . Dolores arriva ad essere la rappresentazione di Madre Natura: «Sì; lei era il grande fiume della Natura, poderosa, forte» (cap. LVII, p. 321); è un brano in cui il narratore ha ripreso la parola, illustrando il pensiero del protagonista. Che ha rinunciato alla collocazione trascendente della Madre celestiale per trovare la quiete in una più raggiungibile Madre terrestre. Tra i due piani simbolici del quadro di El Greco, Ossorio ha scelto di restare su quello inferiore, solo che per riuscirci ha dovuto emarginare la presenza del dolore umano e della morte.
La metamorfosi sembra completa quando, nell’abbracciare attraverso il matrimonio con Dolores –il nome scelto da Baroja per il personaggio che trabocca di serenità è un’ironica antifrasi– una forma di vita primigenia, Fernando arriva ad apprezzare ciò che in passato aveva odiato. Per esempio –e stavolta il narratore richiama l’attenzione sul parallelismo, benché abbia seminato in abbondanza e con perizia queste reminiscenze lungo il testo–, di fronte a quelle musiche «brutali, sanguinose, repulsive come la lama brillante di una navaja» che nel capitolo XVI facevano parte del paradigma della morte, e «Quel ballo brutale, selvaggio» , che prima disgustava profondamente Ossorio, adesso gli «produceva […] una sensazione di vita, di energia, di vigore» (p. 323). «Quel ballo era una brutalità che portava a galla nell’anima i sani istinti naturali e barbari, un’emanazione di energia che bastava per dimenticare ogni sorta di follie mistiche e svenevoli» (p. 324).
La comparazione fra entrambi i brani, cui veniamo espressamente invitati dal narratore, che da questo capitolo è tornato anche a esercitare la sua latente e spesso ironica attitudine critica, dimostra che la costruzione mitologizzante e criptoreligiosa di una natura arcaica nella nuova prospettiva di Fernando Ossorio risponde a una manipolazione ideologica: l’artificiosità di questo processo trova la sua origine in un ambiente rurale come quello di Marisparza, il cui paesaggio smentiva nel modo più assoluto la feracità. Il romanzo prosegue insinuando nella situazione felice di Fernando elementi di turbamento, come la visione chiude il capitolo LVIII, dedicato al viaggio di nozze in treno. Visione che evoca una delle letture di Ossorio, quella di Edgar Allan Poe (cap. XXVI), e torna a presentare il simbolo mortifero del sangue: D’un tratto il treno penetrò in una galleria. Al’uscita si vide la notte nera; si era nascosta la luna. Il treno sembrò affrettare la sua marcia. –Guarda, guarda– disse Dolores, mostrando un faro, e, sopra, una specie di polverone luminoso. Il faro fece un giro: illuminò il treno in pieno con una luce bianca, che si andò arrossando e si fece rossa alla fine. Incuteva un vero terrore quella grande pupilla rossa che brillava su di un supporto nero e che illuminava con il suo cono di luce sanguinoso il mare e i nerastri nuvoloni del cielo.
A Tarragona la visita alla cattedrale permette ancora di contrapporre i due mondi di Fernando, quello di prima e quello nuovo: Nel coro i lamenti dell’organo, i salmi dei sacerdoti, lanciavano un formidabile anatema di esecrazione e di odio contro la vita; nel giardino la vita celebrava il suo placido trionfo, il suo eterno trionfo. (cap. LIX, p. 331) Ma il capitolo si conclude con la momentanea negazione della vita, poiché la figlia di Dolores e di Fernando vive poche ore, e il padre si accusa di averle dato una vita così breve, dimentico della giustificazione che lui stesso aveva dato alla morte nel ciclo della natura, come pure dell’episodio della bara bianca a Toledo (cap. XXX), bara in cui egli aveva supposto ci fosse una bambina. Il polo della vita torna a trionfare –conclusivo– due anni dopo, nell’ultimo capitolo, con la presenza di un maschietto appena nato. Le riflessioni del padre ci rivelano che, tralasciando velleità artistiche –ma non «il culto per la bellezza della forma» –, si dedica per intero alla natura, compiacendosi dei campi appena seminati. L’amore della terra in lui si accompagna, ci dice il narratore, alla «reintegrazione vigorosa di tutti gli istinti, naturali, salvaggi» .
E costruendo nell’immaginazione, come ogni padre, un futuro perfetto per il figlio, Fernando Ossorio convoca sul palcoscenico del suo pensiero gli attori della sua vita interiore, rivestiti dei loro significati definitivi: E pensava che avrebbe dovuto avere cura di lui, allotanandolo da idee perturbatrici, tetre, di arte e di religione. Lui ormai non ci riusciva a buttare fuori del tutto dall’anima quella tendenza mistica per l’ignoto e il soprannaturale, né quel culto e quell’attrazione della bellezza della forma; sperava però di sentirsi forte e di separarsene in suo figlio. Lui lo avrebbe lasciato libero in seno alla Natura, lui gli avrebbe lasciato assaporare il succo del piacere e della forza nella rigonfia mammella da mucca della vita, la vita che per suo figlio non avrebbe avuto misteri dolorosi, bensì serenità ineffabili. […] Lui avrebbe lasciato il figlio libero con i suoi istinti […] non gli avrebbe insegnato alcun simbolo misterioso di nessuna religione.
Il famoso finale aperto di Camino de perfección –lieto per quel che riguarda la situazione, e inquietante per le prospettive che suggerisce–, contrapposto con grande ironia da Baroja ai sogni del protagonista –e di sicuro non copiato dal manoscritto o dalle lettere del personaggio–, sembra nello schema semplice, e apparentemente definitivo, tracciato da Fernando Ossorio per la felicità futura del figliolo, il seme di quel paradigma perturbante: E mentre Fernando pensava, la madre di Dolores cuciva nella fascia che avrebbero messo al bambino un foglio ripiegato del Vangelo.
Miguel de Unamuno (1864 -1936) Paz en la guerra (1897) Amor y pedagogía (1902) Recuerdos de niñez y mocedad (1908) El espejo de la muerte (1913) Niebla (1914) Abel Sánchez (1917) Tulio Montalbán (1920) Tres novelas ejemplares y un prólogo (1920) La tía Tula (1921) Teresa (1924) Cómo se hace una novela (1927) San Manuel Bueno, mártir (1930)
La tendenza ad «armar guerra» , la militanza generosa, la partecipazione attiva alla vita politica e culturale dell’epoca traspaiono con evidenza dai suoi scritti, spesso legati fra loro da intense connessioni testuali, oltre che da costanti allusioni interne. La temperie culturale nella quale si trovò a vivere lo scrittore basco, d’altro canto, era fortemente segnata da una spinta al rinnovamento e talora anche al sovvertimento di certe norme cristallizzate, sia in senso ideologico e morale, sia in senso più squisitamente estetico. La satira e lo spirito polemico informano non solo gli scritti più schiettamente politici, ma permeano anche la produzione letteraria coeva. Intellettuali e letterati come Azorín, Baroja e Maeztu, fra gli altri, uniti nell’impegno politico e nella ricerca di un percorso di rinnovamento globale della società spagnola di finesecolo, costituiscono gli interlocutori privilegiati del giovane Unamuno.
La produzione dello scrittore basco comincia negli anni Ottanta del XIX secolo e risulta estremamente eterogenea e variegata dal punto di vista dei generi frequentati: dal saggio letterario e filosofico al romanzo, dalla poesia lirica al teatro, nessun veicolo espressivo è rimasto sconosciuto ed estraneo al nostro autore, impegnato in un esercizio costante di sperimentazione e approfondimento delle proprie facoltà espressive; tuttavia, tanta varietà non produce una frammentazione della scrittura, ma si risolve piuttosto in una singolare omogeneità, in una unità che pervade l’intera produzione unamuniana.
La stagione creativa si apre con la scrittura saggistica, alla quale Unamuno si dedica continuità e costanza per tutta la vita, privilegiando inizialmente la forma dell’articolo breve e indirizzandosi poi sempre più decisamente verso il modulo del trattato. Dopo le acute riflessioni di En torno al casticismo (1895), saggio incentrato sull’essenza della Spagna e ancora marcato da una significativa attenzione per il contesto europeo, giunge poi all’apice espressivo e artistico, oltre che alla definizione di una prospettiva decisamente ispanocentrica, con Vida de don Quijote y Sancho (1905) e, più tardi, con l’altro importante libro del pensiero, Del sentimiento trágico de la vida (1912), cui segue La agonía del cristianismo, scritto durante l’esilio del 1925.
La produzione narrativa ha il suo primo frutto in Paz en la guerra (1897), vero e proprio libro delle ‘origini’, anche per la sua natura di romanzo di formazione, e prosegue poi con opere di grande rilievo come Amor y pedagogía (1902), Una historia de amor (1911), Niebla (1914), Abel Sánchez (1917), Tres novelas ejemplares y un prólogo (1920), La tía Tula (1921), San Manuel Bueno mártir y tres historias más (1933). L’esperienza narrativa di Unamuno assume i connotati di un percorso di progressiva condensazione, che abbrevia la storia, riduce l’intreccio, comprime il discorso per indugiare sempre più nell’espressione metaletteraria, fino al tecnicismo e alla descrizione radiografica di Cómo se hace una novela (1927) e Don Sandalio jugador de ajedrez (1930).
La vocazione filosofica e l’inclinazione letteraria sono due aspetti convergenti nello scrittore di Bilbao, così come una netta predilezione per il pensiero filosofico asistematico, ben esposta in una lettera indirizzata, immediatamente dopo la crisi religiosa del 1897, all’amico editore Santiago Valentí Camp, missiva in cui Unamuno esprime tutto il suo apprezzamento per la figura di Goethe: Aquí me tiene usted en cierto cristianismo vago, evangélico, convencido de que Dios no es una necesidad racional, de que no le necesitamos como explicación teórica del universo, sino como un imperativo cordial, una revelación de Cristo (. . . ) Acaso en el fondo sea mi concepción del universo poético más que otra cosa, y de raíz poética mi filosofía y mi odio a la ideocracia y mi amor a lo inconcreto, indiferenciado, proteico, palpitante de la vida. A nadie admiro acaso más que a Goethe, cuya comprensión del Universo fue tan vasta que no le cupo en sistema alguno y pudo decir que era a la vez deísta, panteísta, politeísta y ateo. (Cfr. Miguel de Unamuno, Amor y pedagogía. Epistolario Miguel de Unamuno / Santiago Valentí Camp, edición de B. Vauthier, Madrid, Biblioteca Nueva, 2002, pp. 437 -439).
La traiettoria letteraria di Unamuno aveva subito alla fine del secolo un’importante svolta, che trova riscontro in un nuovo orientamento estetico e ideologico della scrittura romanzesca nella Spagna coeva. Al didatticismo del romanzo naturalista ottocentesco comincia ora a contrapporsi un modello narrativo che privilegia gli aspetti introspettivi e simbolisti, spesso non scevro da un certo compiaciuto autobiografismo. La rottura del canone estetico naturalista, fondato su una visione realistica e razionalista del mondo, lascia spazio ora a un’espressione più intima e variegata, sensibile alle dottrine relativiste e nichiliste, incline alla ricerca interiore, alla creazione di uno spazio personale e alla sperimentazione di un linguaggio originale e duttile. Partecipano a questo importante sovvertimento del canone, in una singolare coincidenza cronologica, ideologica ed estetica, quattro romanzi pubblicati nel 1902: Amor y pedagogía di Miguel de Unamuno, La voluntad di Azorín, Sonata de otoño di Ramón del Valle Inclán e Camino de perfección di Pío Baroja.
Amor y pedagogía (1902) Al momento della pubblicazione di Amor y pedagogía nella collana diretta dall’amico catalano Santiago Valentí Camp, denominata «Biblioteca de Novelistas del siglo XX» , Unamuno era già noto al pubblico letterario come autore di Paz en la guerra (1897) e di Tres ensayos (1900) in cui riunisce i saggi Adentro, La ideocracia e La fe. La stesura di Amor y pedagogía fu lunga e intermittente; sappiamo con certezza che aveva cominciato a scrivere il romanzo già nel 1900, quando, in occasione della sua nomina a Rettore dell’Università di Salamanca, scrive all’amico Santiago Valentí Camp alludendo chiaramente a quel «romanzo pedagogico-umoristico» a cui stava lavorando: Cuando esto del rectorado vino a sorprenderme, hallábame enfrascado en una novela pedagógico-humorística, mezcla de elementos grotescos, trágicos y sentimentales. (. . . ) Sobre este argumento y entre un conjunto de personajes, grotescos y monomaniáticos los más, he ido entretejiendo una porción de observaciones pedagógicas y sociológicas, y por debajo fluye cierta concepción de la vida como algo teatral, en que todos representamos un papel. (Cfr. Miguel de Unamuno, Amor y pedagogía. Epistolario Miguel de Unamuno / Santiago Valentí Camp, edición de B. Vauthier, Madrid, Biblioteca Nueva, 2002, p. 443 y 444).
Amor y pedagogía (1902) Il romanzo ebbe una seconda edizione trenta anni dopo, nel 1934, come lo stesso autore dichiara, non senza ironia, nel secondo prologo, aggiunto proprio in occasione di questa ristampa. La ricchezza del paratesto, fatto di un prologo al lettore, di un secondo prologo, di un epilogo e di un’ampia e complessa appendice su cui torneremo in seguito, è ciò che rende più originale il romanzo, segnato da un fitto intreccio di richiami metaletterari, sia dentro che intorno al testo narrativo.
Amor y pedagogía (1902) Amor y pedagogía narra la storia del fallimento di un progetto educativo imposto al protagonista del romanzo, Apolodoro, dal padre di questi, Avito Carrascal, fervido sostenitore del più rigoroso spirito scientifico. Il romanzo si apre proprio con la presentazione dell’artefice di tale nefasto progetto: il proposito di Avito Carrascal è quello di procreare una creatura destinata a trasformarsi in un genio attraverso una precisa strategia pedagogica, il cui primo passo consiste nella scelta della madre, materia prima dell’esperimento scientifico. Ma già la tappa iniziale di questo complicato processo è segnata dall’interferenza di elementi ostili alla scienza, quali le pulsioni dell’istinto e i condizionamenti del sentimento: la scelta di Carrascal si appunta infatti su una donna, Marina del Valle, che si rivelerà ben presto inadeguata al ruolo assegnatole. I due coniugi incarnano in effetti due personalità opposte e la netta contrapposizione si esplicita attraverso la coppia di definizioni antinomiche il narratore assegna loro sin dall’inizio: Forma e Materia. Nonostante gli sforzi di Carrascal di stimolare la genialità del sopraggiunto figlio, questi si mostra molto più sensibile alle sollecitazioni che gli vengono dalla parte materna e cresce con un netto predominio della sfera sentimentale e creativa a svantaggio della componente razionale e intellettiva.
Amor y pedagogía (1902) Una volta raggiunta la maturità, Apolodoro, invece di dedicarsi alla creazione di un complesso sistema filosofico che avrebbe dovuto consacrarlo come genio dell’umanità, secondo il volere del padre, si innamora di Clarita e si dedica alla scrittura letteraria, grazie anche alle suggestioni ricevute dall’amico poeta Hildebrando Menaguti. I suggerimenti del precettore don Fulgencio, cui Carrascal aveva affidato il proprio figlio perché si occupasse della sua formazione pedagogica e filosofica non sortiscono l’effetto sperato dal solerte genitore e ben presto Apolodoro dovrà fronteggiare cocenti disinganni.
Amor y pedagogía (1902) Il fallimento al contempo della sua esperienza sentimentale – Clarita lo lascerà per il suo contendente, Federico— e di quella letteraria —il romanzo che aveva pubblicato era stato un fallimento assoluto— lo indurranno in ultima istanza al suicidio, ovvero alla rinuncia cosciente e definitiva a qualsiasi altra scelta possibile. La morte di Apolodoro, tuttavia, segnerà il pentimento e la metamorfosi del padre nonché il ricongiungimento dei due disgraziati genitori, uniti ora dall’entusiasmo per l’imminente nascita del loro nipote, frutto di un incontro fugace fra Apolodoro e la cameriera Petra. Le parole finali del narratore suggellano una dinamica che informa l’intero romanzo proprio in quanto opposizione fra elementi antitetici: “Facciamo festa in pace, e anneghiamo nell’amore, nella carità, la pedagogia”.
Amor y pedagogía (1902) La contrapposizione fra amore e pedagogia si riverbera in altre importanti coppie di elementi antitetici: forma e materia, religione e ateismo, sentimento e ragione, adattamento ed eredità. Opposizioni e contrapposizioni che si incarnano anche in numerose coppie di personaggi: Leoncia e Marina, opposte e potenziali madri del futuro genio, Avito Carrascal e Marina del Valle, antinomica coppia di coniugi, Apolodoro e Federico, diversissimi pretendenti della vivace Clarita, e infine Fulgencio ed Edelmira, probabilmente l’unica coppia di figure complementari.
Amor y pedagogía (1902) Con Amor y pedagogía Unamuno perfeziona una sperimentazione letteraria che aveva inaugurato in esercizi precedenti (taluni rimasti persino inediti, come Nuevo Mundo) e che sfocerà nel romanzo della sua maturità espressiva, quel Niebla che, in una emblematica continuità, darà nuovo spazio al personaggio di Avito Carrascal, sopravvissuto alla novela pedagógico-humorística e chiamato a nuova vita, in singolare autonomia rispetto al prodotto letterario che l’aveva consacrato.
Amor y pedagogía (1902) L’affrancamento dallo schema narrativo del romanzo naturalista si esplicita anche attraverso un cambio sensibile dello statuto del narratore e della distribuzione delle informazioni. La storia dei personaggi diventa oggetto di esercizio ermeneutico da parte del lettore, invocato costantemente in un complice lavoro ricostruttivo: questi non dispone di un sistema predefinito di dati ma può contare su un copioso insieme di monologhi e dialoghi attraverso i quali i personaggi esplicitano il proprio mondo interiore e rivelano i rapporti che intercorrono fra di essi. Le voci dei personaggi si intrecciano dunque in una polifonia che rende la lingua del romanzo variegata e multiforme, ordinatamente suddivisa in idioletti specifici, visto che ad ogni figura si associa un preciso sistema espressivo, costituito da lemmi caratteristici ed enunciazioni formulari.
Amor y pedagogía (1902) La ricerca di una caratterizzazione linguistica rappresenta d’altra parte un aspetto importante di quel processo di definizione schematica dei personaggi che privilegia il bozzetto piuttosto che la descrizione poliedrica e complessa. La vocazione religiosa di Marina si espliciterà dunque nella costante e ossessiva ricorrenza, a mo’ di litania, di formule quali «Dios mío» o «Por Dios» ; lo sconcerto della moglie di Avito rispetto a quanto accade intorno a lei si condensa altresì nella frequentissima espressione «¡Qué mundo es este, Virgen Santísima…!» , così come le manifestazioni di affetto e calore nei confronti del figlio si rivelano in una sequela di «Luis mío» , «Luisito mío» , «mi cielo» , «mi tesoro» , «vida mía» , ecc. , che rendono immediatamente riconoscibili il personaggio e la situazione.
Amor y pedagogía (1902) Allo stesso modo, anche Avito e don Fulgencio palesano un repertorio espressivo singolarmente caratterizzato, sebbene più ricco e versatile rispetto a quello di Marina. Ecco dunque che ai due pedagoghi vengono assegnate le più ingegnose invenzioni espressive, alla loro voce si associa il più solerte esercizio linguistico unamuniano, quello che coincide con la creazione di neologismi e lemmi aberranti di una pseudoterminologia scientifica.
Amor y pedagogía (1902) Accolto da un successo di pubblico certamente non esaltante, il riscatto di Amor y pedagogía avvenne solo alcuni decenni più tardi, attraverso la rivalutazione della sua importanza come romanzo di transizione verso un nuovo modello ideologico ed estetico, cui apre la strada, come si è già indicato, insieme ad altre importanti opere narrative pubblicate in quegli stessi anni: Camino de perfección di Pío Baroja, Sonata de otoño di Ramón del Valle Inclán e La voluntad di Azorín.
Amor y pedagogía (1902) Tuttavia, questa polifonia non si rivela soltanto nei registri dei personaggi e nella convivenza dei diversi idioletti, ma anche nella varietà delle voci intellettuali coeve o anteriori a cui l’autore si richiama in un costante gioco allusivo. Dalle pagine di Amor y pedagogía, Unamuno stabilisce un dialogo con le principali correnti ideologiche e politiche della sua epoca ed esprime attraverso la parola mediata del romanzo il suo punto di vista rispetto a questioni cruciali che erano al centro del dibattito intellettuale e scientifico fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Il ben noto «mal de España» o questione spagnola è uno dei nuclei di riflessione attorno a cui ruota il dibattito intellettuale di finesecolo, di cui Unamuno costituisce una voce autorevole e di grande rilievo.
Amor y pedagogía (1902) Gli interlocutori di Unamuno sono, fra gli altri, Marcelino Menéndez Pelayo (soprattutto la sua Historia de los heterodoxos españoles, ma anche Historia de las ideas estéticas en España e La ciencia española) e Francisco Giner de los Ríos, uno dei personaggi più in vista del movimento dei krausisti e dei krauso-istituzionisti, fra i più impegnati nella creazione di un nuovo sistema educativo. Insieme a Francisco Giner de los Ríos compaiono altre voci del krausismo spagnolo come Sanz del Río, Gumersindo de Azcárate, Bartolomé Cossío, Urbano González Serrano e altre personalità affini come Francisco de Paula Canalejas, Luis Simarro, ecc. Accanto a queste risuonano quelle dei loro oppositori: Balmes, Félix Sardá y Salvany, Campoamor, Menéndez Pelayo. Sul fronte dei letterati sono Galdós e Clarín gli scrittori con cui Unamuno ingaggia probabilmente un dialogo a distanza.
Amor y pedagogía (1902) Al di là di un indiscutibile profilo di satira ideologica e sociale, tuttavia, Amor y pedagogía presenta alcuni tratti di autoironia che suggeriscono un intento parodico intratestuale, ovvero una volontà da parte di Unamuno di distanziarsi rispetto alla sua produzione precedente, più vicina a certo sentimentalismo romantico e ancora scevra dalla vocazione satirica e dalla passione civile di finesecolo. La crisi religiosa del ’ 97 spezza il suo iniziale entusiasmo positivista e nel romanzo si intuisce anche l’espressione, in chiave umoristica, di una circostanza personale e di una significativa metamorfosi estetica: nel fallimento dell’impresa letteraria di Apolodoro (la pubblicazione di un romanzo sentimentale fortemente autobiografico) è probabile che Unamuno alluda ironicamente alla produzione precedente a Nuevo Mundo.
Amor y pedagogía (1902) I quindici capitoli di cui si compone il corpo narrativo hanno un sostanzioso e imprescindibile complemento nel complesso 'sistema' paratestuale che accompagna il romanzo. Attraverso questo consistente apparato paratestuale, Unamuno cerca la complicità del lettore, diffondendosi in un costante richiamo alla buona lettura, all’interpretazione corretta del messaggio, seppure attraverso la scelta meditata del distacco ironico e della riflessione umoristica. Anche questa rinnovata attenzione rispetto alla ricezione dell’opera letteraria costituisce del resto un aspetto saliente del cambiamento profondo dell’orizzonte estetico prodottosi alla fine del XIX secolo. Il prologo anonimo con cui Unamuno sceglie di aprire Amor y pedagogía si configura come un primo, importante accesso all’interpretazione del romanzo, di cui l’autore illustra la cifra stilistica e offre una chiave di lettura.
Amor y pedagogía (1902) La vocazione parodica e l’intento satirico del testo sono evidenziati sin dalle prime battute del prologo: Il presente romanzo è un’assurda mescolanza di buffonate, spiritosaggini e spropositi, con qualche delicatezza annegata in un flusso di concettismo. Si direbbe che l’autore, non osando esprimere per proprio conto certi spropositi, adotti il comodo artificio di metterli in bocca a personaggi grotteschi e assurdi, palesando così per scherzo ciò che forse pensa sul serio.
Amor y pedagogía (1902) Il gusto per la presentazione bozzettistica dei personaggi, che sfocia talora nel profilo caricaturale, costituisce un motivo di critica da parte dell’anonimo prologhista, che introduce da subito la riflessione metateatrale, vera e propria isotopia del romanzo: Si osservi, in primo luogo, che i personaggi sono indistinti, che sono pupazzi che l’autore trasporta sullo scenario mentre parla. Don Avito ci produce una delusione, poiché quando tutto fa supporre che imporrà un severo regime pedagogico a suo figlio, ci troviamo di fronte al fatto che è un povero imbecille che ottunde il figlio con cose libresche, ma lasciandolo fare, e che si affida a don Fulgencio senza avvertire le mistificazioni di costui. Di Marina è meglio non parlare; l’autore non sa creare donne, non lo ha saputo fare mai.
Amor y pedagogía (1902) La riflessione metadrammatica, d’altra parte, non investe soltanto lo statuto dei personaggi e la struttura del romanzo ma è espressione di quella teoria ontologica che propugna il riconoscimento della teatralità come essenza della vita e dunque la nozione della storia come tragicommedia e della realtà come immagine riflessa del mondo autentico, che è trascendente e inattingibile. Proprio in questo senso, acquista particolare rilievo l’anfibologia “sogno”/“sonno” incarnata dal termine sueño e che spesso risuona nelle parole del narratore come una citazione calderoniana.
Amor y pedagogía (1902) Quanto allo stile del romanzo, Unamuno anticipa nel prologo i giudizi che sospettava di ricevere da qualche severo critico, ma si affretta ad esprimere, di nuovo attraverso un uso sapiente e regolato dell’ironia, un'opinione globalmente positiva sull’opera, sottolineandone soprattutto l’originalità e l’accurata ricerca linguistica: Poco abbiamo da dire sullo stile. Solo che pecca di aridità e a volte di incuria, e che il fatto di scrivere il racconto sempre al presente non è altro che un artificio che fortunatamente non avrà successo. Ciò che dobbiamo far notare, invece, è che dopo le prediche dell’autore dalle pagine di riviste e giornali a favore della riforma o rivoluzione della lingua castigliana, scrive questo romanzo nel modo più piano e semplice possibile, e se non lo rende più puro è perché non può. In fondo, bisogna riconoscere che non ha il senso della lingua, effetto senza dubbio della scarsezza e impurità del suo senso estetico. Si direbbe che considera la lingua come un mero strumento, senza altro valore intrinseco che quello della sua utilità, e che, come il personaggio di questo suo romanzo, ha nostalgia dell’espressione algebrica. Si veda la sua preoccupazione di dare a ogni vocabolo un senso ben determinato e concreto, rifuggendo da qualsiasi sinonimia, di creare una lingua precisa, suoni come suoni. In verità, bisogna rendergli giustizia e riconoscere che quando risulta oscuro non è per difetto di espressione né di linguaggio, ma per un certo contorcimento concettista e per un riprovevole sforzo di dire cose che esulino dall’ordinario. Nonostante tutto quanto abbiamo appena detto, ci sembra che questa sia un’opera degna di accurata attenzione e che ci siano in essa elementi e parti che la rendono consigliabile. E non propriamente per ciò che l’autore ha voluto porre in essa, quanto per ciò che, suo malgrado, non ha potuto evitare di porre. È quasi sicuro che la parte pregiata di questo romanzo è ciò che in esso l’autore considera poco meno che disprezzabile, mentre è disdicevole, invece, l’inclusione di quant’altro in cui questi più sembra essersi ingegnato.
Nel Prologo-Epílogo aggiunto all’edizione del 1934, Unamuno rinuncia all’espediente dell’anonimato e sceglie invece di entrare diffusamente nel testo, attraverso allusioni alla propria esperienza di vita, all’insieme della sua produzione letteraria, agli anni trascorsi e ai numerosi eventi, pubblici e privati, che hanno segnato il corso del tempo. Alla luce di uno sguardo ormai complessivo alla sua produzione, Unamuno propone inoltre il battesimo onomastico con cui definisce il romanzo, a posteriori, come sua prima nivola, iscrivendolo così nell’ambito di quel processo di affrancamento dal canone del romanzo realista di cui Amor y pedagogía costituisce uno dei primi tentativi in ambito ispanico. Il romanzo diventa processo creativo spontaneo, novela vivípara che rifiuta gli schematismi prestabiliti e mira alla creazione di uno spazio testuale dove i personaggi raggiungono la loro essenza grazie al linguaggio, che lo informa e li connota.
Nell’ansia di offrire ai lettori, nel secondo prologo, un’approssimazione sempre più precisa al testo e ai propositi dell’autore, Unamuno definisce il proprio romanzo come opera di confessore, da sussurrare più che gridare, e suggerisce probabilmente, grazie a un sapiente gioco rimico fra i termini “pedagogia” e “demagogia”, una velata critica nei confronti del progetto pedagogico propugnato dalla Insitución Libre de Enseñanza: Il bambino è lo Stato, e deve essere consegnato ai pedagoghi –demagoghiufficiali dello Stato, a quelli della scuola unica. «Povero coniglietto!» , esclamava Apolodoro nel policlinico del dottor Herrero, dove suo padre lo portò a vedere i coniglietti –cavie- sui quali si facevano esperimenti patologici. Il povero Apolodoro si suicidò. Voglia Dio che non debbano suicidarsi –mentalmente e spiritualmente, si intende- i nostri Apolodoro.
L’epilogo che segue ai quindici capitoli del romanzo è al contempo terreno di digressioni metaletterarie, luogo di comunicazione fra l’autore e il lettore, supplemento di soluzioni narrative interne al romanzo (a questa sezione è consegnato, infatti, il resoconto degli effetti che la morte di Apolodoro ha prodotto sugli altri personaggi) e infine preambolo agli Appunti per un Trattato di cocottologia, singolare quanto ingegnosa appendice, che fa rivivere un personaggio della finzione, don Fulgencio Entrambosmares, elevandolo, in un artificio metaletterario quanto mai caro a Unamuno, allo statuto di autore. Nel furore terminologico e descrittivo del libello attribuito a don Fulgencio si intravede un forte intento parodico nei confronti dei trattati scientifici della scuola krausista, sulla scia di un orientamento umoristico e ironico che aveva segnato l’intero romanzo, in particolare nel suo corredo paratestuale. L’appendice al trattato, con cui Unamuno conclude definitivamente, nel 1934, la seconda e ultima ristampa del romanzo, si apre con l’ennesima allusione alla sopravvivenza del personaggio don Fulgencio, «immortale» figura nata dalla finzione e assurta ora a voce indipendente, cui Unamuno affida importanti quanto aspre considerazioni, sempre mediate da una sapiente distanza ironica, sulla storia e sulla evoluzione del quadro politico e culturale spagnolo ed europeo. Le ultime parole del romanzo, questa volta pronunciate dall’autore senza il ricorso ad alcuna mediazione, sembrano abdicare ormai all’espediente consueto dell’umorismo per esprimere uno sconcerto quanto mai dolente e profondo. Così si conclude la prima nivola unamuniana: Concludo, dunque, prima che mi si inasprisca l’umore e prima che, lasciando questo tono, ne prenda un altro in cui esprimerò tutto il disgusto che mi producono i pedanti ricercatoristi, non già i ricercatori. Facciamo festa in pace, e anneghiamo nell’amore, nella carità, la pedagogia.
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