MISSIONE CATTOLICA DI LINGUA ITALIANA BERNA Progetto Missionario
MISSIONE CATTOLICA DI LINGUA ITALIANA BERNA Progetto Missionario 2016 -2017 Eritrea: l'esodo di chi non ha più nulla da perdere
Questa documentazione é una sintesi realizzata sulla base di informazioni e foto tratte dal seguente articolo Titolo: Eritrea: l'esodo di chi non ha più nulla da perdere Autore: Stefania Summermatter Data: 16 settembre 2014 Sito web: Swiss. Info. ch URL: http: //www. swissinfo. ch/ita/societa/eritrea--l-esodo-dichi-non-ha-pi%C 3%B 9 -nulla-da-perdere/40576026
Fuga dall‘Eritrea L’ONU descrive l’Eritrea come uno stato di polizia simile a quello della Germania Est durante la Guerra Fredda. Molti eritrei dicono oggi di vivere nella paura costante di essere sorvegliati dalla polizia. Il sistema in vigore ha portato ad arresti arbitrari, torture e anche sparizioni forzate. Anche coloro che non hanno commesso alcun crimine rischiano di finire ai lavori forzati. Nemmeno andarsene dal paese sembra essere un’opzione percorribile per molti: coloro che decidono di oltrepassare i confini vengono considerati dei “traditori” e alla frontiera la polizia ha l’ordine di sparare per uccidere.
Nei campi profughi, tra sete di acqua e di vita Campo profughi di Mai-Aini Sono più di 1’ 500 i bambini eritrei che vivono nei campi profughi in Etiopia, senza la loro famiglia. I bambini più piccoli vengono “accuditi” da una mamma diurna, mentre i piu’ grandi devono gestirsi da soli nei campi: cucinano, fanno il bucato, vanno a cercare l’acqua e il cibo in dispensa, vanno a scuola. La maggior parte dei minori non accompagnati ha tra i 14 e i 17 anni. È in questa fascia d’età, che vengono arruolati nell’esercito eritreo. Inizialmente, i minorenni venivano accolti nelle famiglie residenti nel campo. Questa solidarietà è però venuta a mancare, in seguito soprattutto alle repentine partenze dei profughi verso altri Paesi. All’interno del campo è stato creato un parlamento dei giovani, responsabile di raccogliere e trasmettere all’UNHCR i bisogni e le rimostranze dei bambini: «Vorremmo poter studiare di più, ci dicono due ragazze. E poter riabbracciare la nostra famiglia» .
I minori non accompagnati restano per diversi anni confinati nei campi profughi in Etiopia. L’UNHCR ha un programma di reinsediamento (resettlement) negli Stati Uniti, ma è limitato a un massimo di cento bambini l’anno. Alcuni fanciulli scappano dall’Eritrea per seguire i fratelli più grandi. Sempre più bambini decidono di lasciare i campi, per raggiungere il Mediterraneo e cercare rifugio in Europa. Si stima che nei primi sei mesi del 2014, su 60 mila migranti sbarcati sulle coste italiane, 10 mila erano minori non accompagnati, provenienti per lo più dall’Eritrea. In Svizzera il numero di minori non accompagnati che chiedono asilo nei primi sei mesi del 2014 era di 252 di cui 149 eritrei. Di norma vengono ospitati nei centri di accoglienza assieme agli adulti. Viene loro attribuita una persona di riferimento per le questioni legali e amministrative. Diverse ONG accusano le autorità migratorie svizzere di rallentare la procedura di decisione, nell’attesa che siano maggiorenni. Una critica respinta però dall’Ufficio federale della migrazione.
Campo profughi di Hitsats Con una popolazione di circa 20 mila rifugiati, Hitsats è una cittadina. Ma qui mancano i servizi di base. «A volte non c’è sufficiente acqua potabile ed energia per tutti. La regione è povera di risorse naturali e queste devono essere condivise tra i profughi e le comunità locali. Mancano i mezzi finanziari necessari per dare una risposta adeguata» , afferma Michael Owor, responsabile della sezione del Tigrai dell‘UNHCR. Danait, 23 anni e il fisico minuto di una ragazzina, ci accompagna nella sua tenda, che condivide con una decina di rifugiati, uomini inclusi. «Nei campi siamo come vegetali. Ci svegliamo non appena sorge il sole. Facciamo colazione e ci sediamo a parlare del nostro futuro. Sempre le stesse domande, le stesse storie. Al pomeriggio andiamo a zonzo per il villaggio, fino all'ora di cena. Poi aspettiamo di dormire» . Danait ci racconta di aver studiato alla scuola italiana di Asmara e di aver ricevuto una borsa di studio dall'università di Roma. Ottenere un visto d’uscita dall'Eritrea è però impossibile per chi è giovane, in buona salute e abile al servizio militare. Anche lei ha vestito l'uniforme. Come tutti gli adolescenti eritrei, Danait ha seguito l'ultimo anno di scuola al centro di addestramento militare di Sawa, tra matite e fucili.
Poi è stata impiegata come domestica: «Il sergente voleva di più di una semplice cena. . . così sono scappata» . Danait è nel campo soltanto da pochi mesi; il suo amico Teddy da anni. «Ho cercato di raggiungere Israele, ma sono stato sequestrato nel Sinai e riportato qui» . I rifugiati che abbiamo incontrato non si fidano delle autorità, accusate di ricevere bustarelle, e nei campi non si sentono sicuri. «Girano storie di donne violentate e profughi rapiti. La sera non esco mai da sola» , afferma Danait. Storie di cui l’UNHCR è a conoscenza, ma che relativizza. Più tardi, il responsabile regionale delle autorità migratorie nazionali (ARRA) smentirà l’accusa di corruzione, pur riconoscendo che garantire la sicurezza nei campi è particolarmente difficile.
Dall‘Etiopia all‘Europa Per la maggior parte dei rifugiati eritrei, l’Etiopia è una tappa obbligata verso una migrazione secondaria. Verso l‘immagine idealizzata che hanno dell’Europa. I migranti sanno ciò che li aspetta sulla strada verso l'Europa. I naufragi in mare, le scorte d'acqua che non bastano per attraversare il deserto, le prigioni in Libia o il rischio di essere sequestrati in Sudan e venduti ai beduini del Sinai. Come Milena e i suoi quattro amici. «Abbiamo trascorso più di un anno rinchiusi in una prigione. Mi hanno picchiata e violentata» . Lo dice così, guardandoci dritto negli occhi. Il costo del viaggio • • Eritrea – Etiopia (Sudan): 1'500 – 2‘ 000 dollari Etiopia – Sudan: 1'500 dollari Sudan – Libia: 1'500 dollari Libia – Italia: 2'000 – 2'500 dollari Per pagare i passatori, i migranti eritrei fanno spesso capo alle risorse di famigliari e amici, per lo più residenti all'estero. Molti sono costretti a indebitarsi oppure a prolungare la durata del viaggio, lavorando sui cantieri in Libia o in Sudan.
Da quando Israele ha costruito un muro di 230 km al confine con l'Egitto, rendendo praticamente invalicabile la sua frontiera, la rotta del Mediterraneo è la più utilizzata dai migranti eritrei. Il numero di sbarchi lungo le coste italiane è aumentato in modo considerevole anche in seguito al caos che regna in Libia e all'operazione Mare Nostrum, lanciata nell'ottobre 2013 dall'Italia per soccorrere i migranti in mare. «I giovani di vent'anni sognano di avere una famiglia, un lavoro, un diploma. È comprensibile che cerchino di partire dai campi, perché qui non hanno futuro. D'altronde nei campi il ruolo dell’HCR è di dare una risposta puntuale a un’emergenza umanitaria. Nulla di più» , afferma Ramsey Bryant, responsabile della sezione protezione in seno all’UNHCR del Tigrai. In Etiopia, i rifugiati non hanno libertà di movimento. Lo Stato autorizza chi ha gravi problemi di salute a vivere in città e dà la possibilità a una manciata di giovani di proseguire gli studi. Un programma destinato soltanto agli eritrei, in virtù di una cultura comune che ne facilita – forse – l’integrazione. Sono poco più di 300 a beneficiarne, lo 0, 3 per cento dei 100 mila rifugiati registrati.
Chi non rientra in questa categoria, per lasciare i campi deve dimostrare di avere i mezzi sufficienti per mantenersi. Di solito, grazie ai soldi inviati dai parenti all'estero. È il caso di Jamila e Sophia, fuggite dall'Eritrea per raggiungere il fratello Asmaron in Svizzera. Vivono nella capitale etiope, due ragazzine sperdute in una città troppo grande. Jamila era ancora minorenne quando ha attraversato la frontiera, un anno fa. Da allora non ha più lasciato la mano della sorella, Sophia. Pochi oggetti, per un grande desiderio di normalità. In una stanza di tre metri per quattro è racchiuso tutto il presente di Jamila e Sophia. Tirano avanti con 100 dollari al mese: «Sono pochi, ma cerchiamo di farceli bastare» . Nella capitale non conoscono quasi nessuno; non parlano né inglese né amarico, la lingua ufficiale dell’Etiopia. «All'inizio avevamo paura a uscire, ma ora cominciamo per lo meno a orientarci nel quartiere e a dire qualche parola» .
La comunità cattolica Eritrea in Svizzera • Gli Eritrei cattolici sono circa 6. 500, attualmente divisi in 15 comunità distribuite in 15 cantoni, dove Abbà Mussie Zerai celebra una volta al mese. Per il resto del tempo le comunità si autogestiscono con momenti di preghiera e formazione spirituale nella lingua madre. • ll 98% della comunità è composta da gente arrivata dopo il 2004. • Si tratta soprattutto di rifugiati con protezione sussidiaria, quindi persone in cammino nel processo d’integrazione. • Una grande parte della comunità eritrea vive di un lavoro precario. Chi possiede il permesso F umanitario non trova facilmente lavoro, non può contrarre matrimonio e non può richiedere il ricongiungimento familiare. Molti vivono con il sussidio sociale, che è di 400. - CHF al mese. • La comunità eritrea non riceve fondi dalla chiesa cattolica svizzera. Per questo motivo tutti i costi sono coperti soltanto con le offerte dei fedeli.
Abbà Mussie Zerai, l’angelo dei profughi e le sue comunità Mussie Zerai è un prete cattolico eritreo che offre aiuto alla persone eritree ed etiopi in Svizzera ed è in contatto con i profughi che dalla Libia cercano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo. Padre Mussie si prende cura delle persone integralmente, non solo dal punto di vista spirituale ma anche dal punto di vista fisico e sociale. Qui in Svizzera il suo compito è soprattutto di tipo pastorale, cioè di assistenza spirituale ai cattolici eritrei ed etiopi, ma il suo impegno per i rifugiati iniziò già nel 1995. Infatti da allora i profughi lo chiamano al cellulare mentre sono in mezzo al Mediterraneo o quando sono rinchiusi dentro i centri di detenzione in Libia, Egitto o in altri Paesi. Molti profughi trovano in lui un punto di riferimento durante le varie situazioni di emergenza. Padre Mussie fa da tramite tra le autorità competenti e i profughi che si trovano in difficoltà o in pericolo. Attraverso il suo impegno diretto e il suo cellulare sempre acceso è stato possibile salvare migliaia di vite nel Mediterraneo!
Le esigenze pastorali della comunità sono: • Formazione per gli operatori pastorali, diaconi, sub-diaconi e ministranti. • Fondi per i ritiri spirituali: bisogna invitare predicatori in lingua madre, coprire il costo dei loro viaggi e dare dei contributi ai predicatori per i servizi resi. • Abbonamento generale per Padre Mussie Zerai che gira tutta la svizzera. Le comunità fanno un grande sacrificio per finanziare il suo abbonamento generale. Bisogna anche coprire i costi degli altri sacerdoti che vengono a celebrare la S. Messa. • La pastorale giovanile con le varie attività (sport, competizioni canore tra i diversi cori cantonali, gare di scrittura e letteratura, etc. ). • I cori delle diverse comunità hanno bisogno di strumenti musicali, libri di canti, spese per gli spostamenti etc.
Per sostenere il Progetto Missionario 2016 -2017 Ccp 30 -21486 -3 Informazioni: Missione cattolica di lingua italiana, "Madonna degli Emigrati”, Bovetstrasse 1 - 3007 Berna Tel. 031 371 0243; www. missione-berna. ch
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