LULTIMO INCONTRO Eneide IV Libro Versi 296 392
L’ULTIMO INCONTRO Eneide, IV Libro Versi 296 -392 Virgilio Da: www. comune. bologna. it/iperbole/llgalv/iperte/eroi/enea/didone%20 enea. htm
“I cartaginesi, un popolo duro e tenebroso", scrive Plutarco, "vile nel pericolo, feroce nella supremazia. Cocciuti nelle loro idee e rigidi verso se stessi, non sanno godersi la vita". Il nome di Cartagine è avvolto d'un cupo splendore e desta tuttora associazioni sgradevoli, poiché anche noi continuiamo a vedere questa città con gli occhi dei suoi nemici, greci e romani. I primi l'hanno odiata, maledetta, combattuta, e diffamata; i secondi l'hanno imitata, e poi l'hanno addirittura cancellata dalla faccia della terra, con una brutalità mai più ripetuta contro nessun'altra comunità che si levò a contrastarne il progresso. Di Cartagine non doveva rimanere che un ricordo deformante. E così avvenne. A questo esito finale non poté rimediare neppure il tardo tentativo apologetico fatto da Virgilio. Egli fa approdare l'eroe della sua Eneide proprio alla città nordafricana, dove s'incontra con la sua regina: la leggendaria Didone, modello di bellezza trionfante, e superiore nell'incedere alle dee tutte. Enea, il capo dei dàrdani fuggiaschi da Troia distrutta, la ama, e l'abbandona solo su ordine degli dèi per proseguire e adempiere in Italia alla sua missione storica: creare le premesse della fondazione di Roma. Per Virgilio, Didone è la donna a cui Zeus ha concesso la grazia di "fondare una nuova Tiro, e domare, col diritto e la legge, popoli alteri". Nella leggenda e nella letteratura, sopravvive come la fondatrice di Cartagine.
Nel quarto libro dell’Eneide di Virgilio matura il drammatico epilogo della impossibile storia d’amore fra Didone e il condottiero degli esuli troiani Enea. L’eroe troiano è stato richiamato dagli dèi alla sua missione fatale e, senza porre indugio, prepara la partenza. La fama, cioè la “voce pubblica”, riferisce a Didone che l’amante è in procinto di abbandonarla. Si aggira dunque inferocita per la città in cerca dell’eroe. Qui il poeta interviene direttamente nella narrazione epica a commento dei fatti, secondo modalità proprie della lirica: “chi riuscirebbe a ingannare un amante? ” ( quis fallere possit amantem? ), e in maniera più sottile, proiettando sui fatti un giudizio morale. Virgilio partecipa al furore della regina che si scopre tradita, assumendone il punto di vista: definisce infatti le azioni di Enea “inganni” ( dolos). Ai versi iniziali, in cui il poeta presenta il furor di Didone attraverso la similitudine con le Baccanti invasate, segue il discorso della regina, che si può suddividere in tre sequenze, corrispondenti a tre diversi momenti psicologici: • l’aggressione • la preghiera • la rassegnazione
Nell’ultimo atto della perorazione Didone ritorna sul registro patetico evocando, rivolta a se stessa (quid moror? ) immagini di morte (moribunda) e di distruzione per la sua città (destruat, captam). Il lungo e articolato discorso della regina si conclude con un’immagine degna della squisita sensibilità poetica di Virgilio: il rimpianto di Didone per non aver avuto un figlio dell’eroe a lui somigliante che, giocando nella reggia, potesse addolcire la sofferenza della madre abbandonata. E’ quindi l’immedesimarsi del poeta nel personaggio da lui creato che riesce dunque a rappresentare tutti gli ondeggiamenti di un animo in tempesta.
Agli occhi di Enea tutto questo sembra però non aver alcuna importanza: nella sua impassibilità non nega quanto di diritto a Didone, ma le ricorda di non aver mai fatto promesse concrete. Enea dunque deve inevitabilmente partire e non glielo impongono solo gli dei: lo ammonisce il ricordo del padre Anchise e l'idea di non potere negare al figlio Ascanio una patria che gli spetta di diritto. La regina però non sente ragioni e, sopraffatta dall'ira, inveisce contro l'eroe. Non è possibile che essendo figlio di una dea, gli rinfaccia, egli sia così crudele da non provare nemmeno pietà nei suoi confronti. E' questo ad offenderla soprattutto, ma la sua ira si estende anche agli dei, che hanno deciso per lei una sorte tanto crudele.
Ella infine si congeda da Enea, accordandogli il permesso per la partenza, ma poco prima di svenire tra le braccia delle ancelle gli lancia un terribile auspicio: "T'auguro, se i numi pietosi possono qualcosa, di scontare la pena tra gli scogli e d'invocare senza fine Didone per nome. Con nere faci t'inseguirò di lontano e, quando il gelo della morte avrà dall'anima scisso le membra, sarò dovunque l'ombra tua. Ne sconterai la pena, infame!" La fine per Didone è segnata: perirà gettandosi sulla stessa spada che l’eroe le regalò in precedenza, quando si cercava di allontanare il più possibile il pensiero della partenza di Enea alla volta della fondazione di Roma.
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