Le politiche abitative nel tempo delle politiche sociali
Le politiche abitative nel tempo delle ‘politiche sociali’ Dismissioni e liberalizzazioni La mercatizzazione del ‘diritto all’abitare’ nel ritorno dello stato regolatore: dalle politiche per sostenere il diritto alla casa alle politiche per sviluppare il mercato della casa
«Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso è in corso un progressivo disinvestimento pubblico nelle politiche abitative, che ha coinciso con decisivi mutamenti economici e ordinamentali» (Olivito, p. 195)
A. Dalla dismissione del patrimonio edilizio pubblico al ‘social housing’
Olivito individua nel complesso delle politiche abitative italiane una ‘tendenza proprietaria’. A una iniziale preferenza per l’assegnazione in locazione degli alloggi di edilizia popolare si è gradualmente sostituita quella per ‘variegate’ forme di proprietà e sono state poste le premesse, sin dalla legislazione degli anni ‘ 70 del Novecento, per «la distrazione degli alloggi dalla destinazione al servizio sociale dell’ERP» (p. 145). V. I dettagli della vicenda anche alle pp. 144 -148). La tendenza verso la proprietà – sia pure, o meglio, in quanto ‘variegata’ – della legislazione abitativa degli anni ‘ 70 poteva essere spiegata come attuazione della Costituzione e come risposta a una domanda sociale di proprietà dell’abitazione. Tuttavia, essa si giustificava soprattutto con l’impossibilità per gli enti di gestione di far fronte agli enormi oneri di manutenzione degli immobili (p. 148). Col tempo, a prevalere sarà invece una politica di vendita degli alloggi di edilizia economica e popolare che non si propone più, neanche a parole, di venire incontro a un ‘bisogno sociale’ né di rispondere a costi derivanti dalle stesse politiche abitative pregresse, ma è funzionale alla esigenza di ridurre il disavanzo pubblico grazie al risparmio di spesa e al reperimento di nuove entrate (p. 152) o mediante la promozione di investimenti privati (p. 218 ss) e si qualifica sempre di più nel senso della caratterizzazione dell’edilizia ‘pubblica’ come attività di mercato.
La politica abitativa è andata verso la costruzione di alloggi da cedere in proprietà e poi verso la cessione in proprietà del patrimonio edilizio prima vincolato, per tre motivi: a) Rispondere a un bisogno sociale (in tesi, costituzionalmente riconosciuto) di proprietà dell’abitazione b) Tamponare i costi e affrontare le spese connesse alle politiche abitative c) Risanare la finanza pubblica e in particolare ripianare il debito pubblico, una finalità che inizia a imporsi inderogabilmente all’Italia in vista dell’adesione al Trattato di Maastricht sulla moneta unica (1992) e come sua conseguenza e sarà accentuata negli anni a venire. d) Allargare l’ambito degli scambi di ‘mercato’ È piuttosto chiaro che mentre le finalità (a) e (b) sono direttamente o indirettamente connesse col fine dell’edilizia pubblica, per la finalità (c) questo è molto meno sostenibile.
Dalla legge 560/1993, che per la prima volta ha previsto la predisposizione da parte delle Regioni di PIANI DI VENDITA del patrimonio abitativo costruito a totale o parziale carico dello Stato, della Regione, e di enti pubblici territoriali, nei limiti del 75% del patrimonio vendibile (p. 153) Alla legge 80/2014 (Piano Casa Lupi) che ha adottato «un nuovo piano di dismissioni destinato a operare a tutto raggio, essendosi prevista l’alienazione degli immobili di proprietà dei Comuni, degli enti pubblici anche territoriali, nonché degli IACP, comunque denominati, anche in deroga alla legge del 1993 “nei quali la proprietà pubblica è inferiore al 50%”, quelli considerati “fatiscenti” (quindi, potenzialmente, la maggior parte) e di mettere all’asta quelli occupati senza titolo. e interventi successivi il patrimonio edilizio pubblico, suscettibile di locazione, si è ridotto ed è deperito per mancanza di investimenti (es. non c’è più vincolo di destinazione per il permesso di costruire) si è inserita una forte tendenza alla trasformazione dell’edilizia residenziale ‘pubblica’ in una attività di supporto e regolazione di attività economiche private e una complessiva trasformazione del rapporto tra il ‘pubblico’ e le attività economiche rispetto al quadro che si era venuto costruendo nel periodo repubblicano e così a incrementare il ‘mercato’ degli immobili
Quando una scelta politica nel campo di un diritto sociale, come quella all’abitare, viene immaginata per fini che non hanno direttamente o almeno indirettamente a che vedere con il soddisfacimento di quel diritto si apre un problema. È strutturale ai diritti sociali il loro carattere ‘condizionato’ (alle esigenze economiche e anche al variare degli indirizzi politici) ma mettere in vendita alloggi ERP per ‘mettere sul mercato’ il patrimonio edilizio pubblico ha poco a che vedere con le finalità intrinseche del diritto all’abitare. A partire dagli anni ‘ 90 dello scorso secolo si è in realtà delineato, anche presso molti studiosi, un nuovo orientamento il quale sostiene non che ‘i diritti sociali saranno soddisfatti con la gradualità e la proporzione compatibili con le disponibilità economiche’ ma dovranno comunque essere tenuti in considerazione come tali da chi elabora le politiche, Ma che i diritti sociali saranno soddisfatti come naturale conseguenza del risanamento dell’economia; per cui il perseguimento di pure finalità economico finanziarie è di per sé l’unica reale e possibile garanzia dei diritti sociali.
«Le recenti politiche pubbliche «sembrano confermare l’adesione a un’ottica di favor per la ripresa dell’economia, piuttosto che per l’attuazione dei diritti sociali, specie di quelli ‘a prestazione’. Se, infatti, è la produzione di ricchezza a finanziare lo stato sociale, quando il gettito proveniente dal sistema economico viene a mancare, i pubblici poteri si trovano nella condizione di non poter assicurare senza, prioritariamente o contestualmente, favorire la ripresa economica. Si spiega così come l’azione dei pubblici poteri volta all’attuazione e alla tutela dei diritti sociali, in tempo di crisi, non possa essere disgiunta da una di favor nell’attuazione delle libertà economiche. » «Gli obiettivi, economici, della riduzione del deficit pubblico e della ripresa della competitività possono tradursi in maggiori risorse da destinare all’attuazione dei diritti sociali. » (Luisa Azzena, 2017). ?
Ma non si tratta di risparmiare oggi per riprendere domani più intensamente a tutelare i diritti; Ciò che cambia sotto l’impero delle ‘esigenze finanziarie’ è la stessa nozione dei diritti sociali, e delle politiche sociali, che da strumenti di difesa della società, e della sociabilità di ciascuna persona, davanti al mercato diventano strumenti di attivazione della società, e dei singoli individui, in favore del mercato. In tempi in cui tra gli obiettivi delle politiche scolastiche vi è «l’educazione all’autoimprenditorialità» (l. 107 del 2015 ‘Buona Scuola’ ) tutte le ‘politiche sociali’ sono concepite in vista non solo (e non tanto) del risparmio della spesa ad esse inerenti, ma in vista della loro capacità di diventare occasioni di circolazione di ricchezza. In questa direzione si sono avviate da gran tempo le politiche abitative.
Il patrimonio edilizio pubblico, suscettibile di locazione, si è ridotto ed è deperito per mancanza di investimenti (es. non c’è più vincolo di destinazione per il permesso di costruire). L’edilizia residenziale ‘pubblica’ si è trasformata in una attività di supporto e regolazione di attività economiche private e le politiche ‘abitative’ si sono risolte in un allargamento e incremento del mercato degli immobili. Nel quadro di una complessiva trasformazione del rapporto tra il ‘pubblico’ e le attività economiche rispetto al quadro che si era venuto costruendo nel periodo repubblicano, di cui sono il simbolo le ‘dismissioni’.
La politica di dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato Fino all’inizio degli anni Ottanta), la gestione del patrimonio immobiliare dello Stato era regolata da una normativa con prevalenti connotazioni di carattere pubblicistico e sociale, con scarsi riferimenti a obiettivi di carattere economico. Con gli anni Novanta si è però affermato un indirizzo politico-legislativo ispirato alla gestione produttiva del patrimonio immobiliare pubblico. Con la legge finanziaria per il 1990 e con il DPEF per gli esercizi 199193 è stato per la prima volta previsto, per lo Stato, l’obiettivo di avviare un processo di privatizzazione immobiliare nel più ampio ambito delle cosiddette privatizzazioni dello Stato. L’operazione non è nuova, in quanto un intervento analogo fu effettuato oltre un secolo fa, alla nascita dello Stato unitario. Nel 1862, infatti, il Ministro delle finanze Quintino Sella, rilevato che il debito dello Stato cresceva ogni anno in maniera esponenziale a causa dell’accumularsi debiti passati e delle ingenti spese militari da affrontare, iniziava la liquidazione, o come allora si diceva “la disammortizzazione”, di vaste proprietà dello Stato non indispensabili per finalità istituzionali.
La vendita degli alloggi popolari come misura di mercato Vediamone il funzionamento attraverso un commento molto critico ad una delle più recenti misure in tal senso, La legge 23 maggio 2014, n. 80 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47, recante misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”, che ho tratto dal sito Gli stati generali
Il governo concede agli inquilini delle case popolari il diritto di acquisto a prezzi da saldo. Una casa del valore di mercato di quasi 300 mila euro potrà essere vendita a 30 mila. Uno zero in meno, proprio così. Finalmente, dopo tre mesi dalla data di approvazione, sulla Gazzetta Ufficiale n. 115 del 20 maggio 2015 è stato pubblicato il decreto relativo alla procedure di alienazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica – le cosiddette case popolari – di proprietà dei Comuni e degli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) o degli enti ad essi assimilabili, in attuazione della Legge 23 maggio 2014, n. 80 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47, recante misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”. Cosa c’è scritto nel decreto? Perché? Anzitutto, relativamente alla legge non sono state sollevate da parte delle Regioni questioni di attribuzione costituzionale. Il relativo decreto attuativo, a firma congiunta del Ministro delle Infrastrutture dei Trasporti, dell’Economia e delle Finanze e per gli Affari Regionali e le Autonomie, ha ottenuto l’intesa nel dicembre 2014 della Conferenza Unificata Stato-Regioni-Città ed autonomie locali. La responsabilità è quindi ampiamente condivisa da tutti i livelli amministrativi e politici, parlamento compreso, ferma restando l’iniziativa del Governo centrale. Secondariamente, IACP e Comuni devono approvare entro il prossimo settembre specifici programmi di alienazione, con l’obbiettivo di conseguire la “razionalizzazione ed economicità di gestione del patrimonio”. In questo senso devono essere favorite le dismissioni di alloggi situati in condomini in cui il proprietario pubblico sia in minoranza o in situazioni in cui vi sia assenza di servizi o siano presenti immobili fatiscenti o esistano costi insostenibili di manutenzione e/o ristrutturazione. I proventi dovranno essere destinati a un programma di recupero degli alloggi popolari, all’acquisto di unità esistenti o, in ultima istanza, a nuova costruzione. E fin qui tutto bene. Ma non è tutto, e arriviamo all’ultima e più preoccupante questione. Il decreto non fissa limiti espliciti alla quantità di alloggi vendibili: potrebbero essere alienati, per paradosso, tutti gli alloggi popolari. Più precisamente, è lasciata libertà totale ai soggetti proprietari: e in tempi di magra dei conti degli enti locali e delle aziende pubbliche questo non è sicuramente un buon principio. Il prezzo di vendita è fissato secondo due procedure distinte per due categorie diverse di alloggi. Senza entrare troppo in tecnicismi, per la maggior parte degli alloggi, il prezzo è definito sulla base della rendita catastale rivalutata applicando un moltiplicatore pari a 100 e ridotta dell’ 1% per ogni anno di anzianità di costruzione dell’immobile, fino a un massimo del 20%. Tutti sanno che la riforma del catasto, e con essa la scottante revisione delle rendite catastali, è oggetto di discussione da tempo immemorabile. Tutti sanno, inoltre, che le case popolari sono state per la maggior parte costruite negli anni ’ 70 e ’ 80, e sono quindi più vecchie di 20 anni. Abbiamo quindi provato a fare un conto a partire da un immobile privato in vendita a Milano a 280. 000 € e situato in un immobile degli inizi del ‘ 900. Abbiamo chiamato l’agenzia, chiedendo la rendita catastale, per poter fare un calcolo delle future tasse di compravendita. L’agenzia ha comunicato che la rendita ammonta a 392, 51 €. (392, 51*100) – 20% = 31. 400 € Un immobile che con una perizia tecnica sarebbe stato valutato 280. 000 € sarà inizialmente offerto in vendita a 31. 400 €. Non c’è bisogno di aggiunte. Ma a chi potrà essere offerto in vendita? Il decreto indica che l’alloggio deve essere inizialmente offerto all’assegnatario dell’alloggio popolare, che l’assegnatario ha 60 giorni per accettare o meno e che, nel caso accettasse, potrà rivendere liberamente l’alloggio, dopo soli 5 anni. Proponiamo un’interpretazione: un inquilino che ha avuto una casa popolare perché non poteva pagare l’affitto di mercato, ha accumulato abbastanza risorse per poter acquistare un alloggio a un prezzo irrisorio e, dopo soli 5 anni, potrà rivenderlo ai prezzi di mercato. I grandi gruppi immobiliari, che si fregavano le mani ai tempi del prima bozza di legge proposta all’epoca di Maurizio Lupi e che furono additati come i veri mandanti dell’operazione, non devono disperare. Cinque anni passano in fretta e l’affare è solo rinviato. Nel caso in cui l’inquilino non accettasse, l’alloggio dovrà essere venduto all’asta. Sperando, per i conti pubblici e l’interesse collettivo, che le aste siano ampiamente comunicate e che ci siano moltissime offerte al rialzo. Le case popolari sono un patrimonio prezioso, destinato a uno scopo sociale importantissimo, costruito con i contributi GESCAL (Gestione Case Lavoratori), obbligatori per molte generazioni di lavoratori. La loro svendita è un processo irreversibile e non ha nulla a che fare con la loro doverosa valorizzazione che dovrebbe vedere: affitto di qualunque spazio esistente, ristrutturazione del patrimonio (anche attraverso il contributo dei singoli inquilini e di soggetti organizzati come associazioni, fondazioni, cooperative), controllo sugli attuali occupanti e assegnazione degli alloggi a tutti coloro che ne hanno davvero necessità.
Col passaggio dall’ERP (edilizia residenziale pubblica) all’ERS (edilizia residenziale sociale o social housing) le politiche abitative pubbliche (ri-) entrano nella ‘logica di impresa’ - Il ruolo dell’attore pubblico diviene ( ritorna? )quello di promuovere interventi nel campo edilizio ‘socialmente orientati’ da parte di attori privati (imprenditori, gruppi immobiliari, organismi noprofit, banche e fondazioni private) che sono incentivati tramite riduzione di oneri di costruzione, agevolazioni e detrazioni fiscali, cessione di diritti edificatori (costruire in cambio dell’acquisto del potere di costruire), ammortamento degli oneri di urbanizzazione; - I privati sono sempre più coinvolti nella definizione delle politiche abitative, attraverso la progressiva apertura ai fondi immobiliari e ai c. d. programmi integrati - I destinatari sono persone che pur non avendo accesso all’ERP per motivi reddituali non sono nella condizione di accedere a un alloggio sul libero mercato (ritorna il ceto medio e non ‘il popolo’ come destinatario di interventi edilizi? )
Il Piano nazionale di edilizia abitativa varato con d. l. n. 112 del 2008 nel prevedere la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente ha incluso tre linee di intervento: 1. La costituzione di un sistema integrato nazionale e locale di fondi immobiliari (SIF) per la realizzazione di immobili di edilizia privata sociale e per la promozione di strumenti finanziari innovativi con la partecipazione di soggetti pubblici e privati; 2. La promozione da parte di soggetti privati di interventi finanziari; 3. La realizzazione di programmi integrati per la realizzazione di edilizia anche sociale. 4. La stipula di ‘accordi di programma’ promossi dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per l’attuazione di una quota di alloggi destinati a locazione a canone convenzionato. Notevoli sono i ‘premi e gli incentivi a favore dei soggetti, anche privati, che partecipano a questi interventi, la cui filosofia, illustrata per esempio nelle ‘Linee guida agli enti territoriali per il Piano Nazionale di edilizia abitativasistema integrato di Fondi immobiliari’ del 2012 è che «IL RITORNO ATTESO DELL’INVESTIMENO DEVE SAPER CONIUGARE LE ESIGENZE SOCIALI CON UN EQUO OBIETTIVO DI REMUNERAZIONE PER GLI INVESTITORI E L’INIZIATIVA DEVE ABERE LA CARATTERISTICA DI UN INVESTIMENTO FINANZIARIO CON UNA REMUNERAZIONE AI LIVELLI DI MERCATO NEL RISPETTO DEGLI INTERESSI RAPPRESENTATI DALLE DIVERSE CATEGORIE DI INVESTITORI. »
B. Dai patti in deroga alla liberalizzazione dei canoni d’affitto
Un anno prima della legge 560/1993, che per la prima volta ha previsto vendita degli immobili già di edilizia economico popolare o residenziale pubblica, nel 1992 il Governo Amato aveva aperto le locazioni ai ‘patti in deroga’. Nel 1998, con la legge 431, al primo intervento di liberalizzazione del 1992 subentrò «un impianto normativo organico il cui principale obiettivo è stato quello di liberalizzare il settore delle locazioni abitative e di riconoscere alle parti una maggiore autonomia negoziale nella quantificazione del canone» . Due diverse tipologie contrattuali: a) Locazione a canone libero b) Locazione a canone concordato «La liberalizzazione ha determinato un aumento del canone tale da determinare un ridisegno delle modalità di godimento dell’alloggio» , scrive Olivito, p. 198, e anzi dell’intero diritto all’abitare, della stessa geografia sociale delle città. In una città come Roma, oggi pagare un affitto in centro porterebbe via il 70% del reddito a una famiglia con 30. 000 euro netti di reddito all’anno, il 46% nella prima periferia e il 36% (!) in estrema periferia. (Fusco) Persone che avrebbero vissuto in affitto contraggono mutui …. FINANZIARIZZAZIONE
«Dal 2001 al 2009 i mutui per l’acquisto di abitazioni sono cresciuti del 70%. In considerazione dell’affacciarsi del sistema creditizio italiano sui mercati finanziari internazionali, ciò ha fatto sì che l’accesso alla proprietà dell’abitazione fosse sempre più dipendente dall’andamento di quei mercati, dai relativi rischi, e, in ultima analisi, dal livello di benessere economico delle famiglie» . La crisi degli anni 2008 -2009 si è subito tradotta in «difficoltà nella sostenibilità dei canoni d’affitto, nell’aumento del tasso di insolvenza delle famiglie mutuatarie e nella riduzione dei mutui erogati a giovani e stranieri» . «In questo scenario, le politiche abitative italiane, anziché sostenere le locazioni e i conduttori di medio e basso reddito, hanno preferito proseguire sulla strada degli incentivi all’acquisto dell’abitazione, investendo soprattutto sulla sostenibilità dei mutui e sulla tassazione. » (Olivito, p. 200 -201) La crisi attuale e la condizione di perenne indebitamento in cui essa pone i cittadini non sono l’esito del fallimento di un sistema: al contrario, ne costituiscono il naturale sviluppo. Condizione permanente già a partire dal 1973, la crisi è, di fatto, la modalità di governo del capitalismo contemporaneo. Il rapporto creditore/debitore ha del tutto scardinato quello capitale/lavoro, ponendo fine all’esistenza della classe operaia e costituendo l’asse principale di una governance esercitata attraverso un asservimento macchinico che non passa attraverso la rappresentazione, il linguaggio, il logos. (Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Derive Approdi, 2013.
Sostegno ai redditi bassi o lotta all’evasione? Per quanto le due finalità non siano tra loro in contrasto, è interessante notare come nel processo di liberalizzazione degli affitti si sia inserita una corposa componente anti-evasione fiscale che è sostituita a forme dirette di finanziamento pubblico a favore dei redditi bassi e, pur avendo implicazioni a favore degli inquilini, fonda la sua giustificazione su esigenze di carattere tributario. La legge del 1993, riprendendo una previsione della legge sull’equo canone che era rimasta lettera morta per mancanza di finanziamenti, istituì – presso il Ministero dei LLPP – il ‘Fondo nazionale per il sostegno all’accesso delle abitazioni in locazione’ che però a sua volta ha funzionato poco per via degli scarsi finanziamenti che hanno reso irrisorio il contributo. Con la legge del 1998 la strada prescelta è stata quella delle detrazioni fiscali. Nel 2011 è stato introdotta la cedolare secca sugli affitti con il d. lgs. N. 23
Il d. lgs 2011 n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale) ha anche introdotto una disciplina «“premiale” che, a beneficio dei conduttori che avessero denunciato al fisco il contratto non tempestivamente registrato dal locatore, lo integrava d’autorità (artt. 1339, 1419 c. c. ) con clausole particolarmente favorevoli all’inquilino, che gli avrebbero assicurato una considerevole stabilità del rapporto locativo» . Queste previsioni sono state dichiarate costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 76 Cost. , con sentenza della Corte Cost. n. 50 del 2014, in quanto estranei agli obiettivi ed ai criteri della legge di delega 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione). Successivamente, il decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47 (Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2014, n. 80 – fece «fsalvi, fino alla data del 31 dicembre 2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell’articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23» . La disposizione è stata, a sua volta, dichiarata costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 136 Cost. , con sentenza n. 169 del 2015.
Una norma analoga è stata però reintrodotta dalla legge n. 208 del 2015. In questo caso, la Corte costituzionale con sent. n. 817 del 2017 ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale incorra in analoga violazione dell’art. 136 Cost. , facendo leva sul carattere imperativo delle esigenze tributarie sottese alla disposizione. Il diritto all’abitare non viene nemmeno nominato … «I commi 8 e 9 dell’art. 3 del d. lgs. n. 23 del 2011 avevano previsto – in caso di omessa o tardiva registrazione del contratto di locazione, nonché in caso di registrazione di un contratto di comodato fittizio – una rideterminazione legale della durata del rapporto in quattro anni rinnovabili, decorrenti dal momento della registrazione tardiva, e una predeterminazione del canone annuale nella misura del triplo della rendita catastale dell’immobile, oltre l’adeguamento, dal secondo anno, in base al 75% dell’aumento in base agli indici ISTAT, ove inferiore a quello pattuito. Tali disposizioni assumevano particolare rilievo nel contesto normativo in cui si andavano a collocare, poiché l’art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)» – prescrivendo che «i contratti di locazione […], comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati» – aveva così «eleva[to] la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell’art. 1418 cod. civ. » (ordinanza n. 420 del 2007), in aderenza ad un «principio generale di inferenza/interferenza dell’obbligo tributario con la validità del negozio» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 17 settembre 2015, n. 18213 e, in senso conforme, sezione terza, 14 luglio 2016, n. 14364 e 13 dicembre 2016 n. 25503). L’intervento legislativo di cui al d. lgs. n. 23 del 2011 aveva pertanto operato una sorta di convalida di un “contratto nullo per difetto di registrazione”, conformando, però, esso stesso il sottostante rapporto giuridico, quanto a durata e corrispettivo. »
Le politiche abitative nel tempo delle ‘politiche sociali’ C. La regionalizzazione delle politiche abitative
La fase delle dismissioni del patrimonio immobiliare pubblico e della liberalizzazione degli affitti ha corrisposto all’epoca del ‘decentramento amministrativo’ che, dalle leggi ‘Bassanini’ del 1998 alla Riforma del titolo V del 2001 ha visto un enorme aumento delle funzioni normative e amministrative delle Regioni in ambito abitativo. Vedine le luci e ombre a pp 196 -198
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