Il diritto allabitare nella giurisprudenza costituzionale BILANCIAMENTO RAGIONEVOLEZZA
Il diritto all’abitare nella giurisprudenza costituzionale BILANCIAMENTO – RAGIONEVOLEZZA – EGUAGLIANZA- NON DISCRIMINAZIONE
Nel suo complesso, la giurisprudenza della Corte costituzionale segue queste linee principali: Ø Dall’art. 47 comma 2 (e dal resto delle disposizioni costituzionali) non nasce un ‘diritto all’abitazione’ o un ‘diritto alla casa’ che si traducano, ad esempio, in precise pretese del conduttore contro il locatore o ‘comprimano’ il diritto del proprietario; Ø Da quelle disposizioni nasce invece un dovere della Repubblica (Stato+Regioni+Enti locali) di predisporre un servizio pubblico sociale che tenda a soddisfare il bisogno abitativo, del quale la Corte ha sottolineato l’importanza primaria e fondamentale e l’inerenza a esigenze della personalità. Ø Il carattere infrazionabile del bisogno abitativo e le ricadute di finanza pubblica delle politiche abitative giustificano importanti ‘ingerenze’ dello Stato nelle politiche abitative, che pure sono di competenza regionale. Ø In quanto diritto sociale il diritto all’abitare non può essere attuato che con gradualità.
I: La Costituzione non riconosce un diritto ‘alla casa’ o un ‘diritto all’abitazione’ come pretese giuridicamente azionabili incidenti sui diritti del proprietario o del locatore.
La giurisprudenza costituzionale si è confrontata espressamente (per escluderle) con le posizioni interpretative secondo cui esiste un diritto alla casa o un diritto all’abitazione. La tesi, sostenuta da una parte della dottrina negli anni ’ 70 del Novecento, e fatta propria da alcuni giudici, che dall’art. 47 comma 2 Cost. nasca un diritto concettualmente distinto da quello di proprietà sulla casa, un ‘diritto alla abitazione’ come diritto alla stabilità del rapporto locativo che deve prevalere sul diritto del proprietario allo sfruttamento economico del bene casa è sempre stata respinta. Nella sent. n. 225 del 1978 la Corte ha espressamente preso in considerazione, e respinto, una implicazione di questa tesi, quella cioè secondo cui se una persona ha due case, in una vive mentre dà l’altra in affitto, il suo interesse dovrebbe retrocedere davanti a quello del conduttore, sicché si sarebbe dovuta richiedere, per esercitare il diritto di recesso, una «giusta causa» (sent. 225/1978).
Nella stessa decisione (n. 225/1978), e analogamente, la Corte ha respinto le tesi secondo le quali il diritto all’abitazione includerebbe un ‘diritto soggettivo perfetto alla stabilità del rapporto di locazione’ e un favor nei confronti del conduttore, in quanto parte debole rispetto al conduttore. La Corte ha anche respinto l’idea che un tale (inesistente) diritto alla stabilità del rapporto di locazione si ponga in relazione con, o sia espressione diritto a formare una famiglia e al dovere di adempiere i relativi doveri, sancito nell'art. 31 Costituzione, perché, secondo la Corte, la tutela della famiglia posta dall’art. 31 Cost. , «concerne soltanto quelle situazioni legate da un rapporto di necessità con la formazione della famiglia e non già tutto ciò che in maniera puramente indiretta ed eventuale può avere qualche riflesso su di essa» . (sent. 225/1978)
In altra occasione, la Corte ha anche respinto la tesi che voleva avvicinare il rapporto tra conduttore e locatore a quello tra datore di lavoro e lavoratore e per questo sosteneva che dare case in affitto è sostanzialmente una attività imprenditoriale e dunque dovrebbe ricadere nella previsione dell’art. 41 Cost. Questa tesi è stata respinta osservando che, da una parte, a differenza della proprietà privata, l’iniziativa economica privata «si sostanzia nella libertà di svolgere attività relative alla funzione imprenditoriale» , e d’altro canto prendere in affitto una casa non è una prestazione, ma godimento di un bene non produttivo quale l'immobile destinato ad abitazione» . Ai giudici e a quella parte della dottrina che tentavano di far discendere dall’art. 47 una sorta «di diritto perpetuo alla locazione » la Corte ha opposto che è una tesi illogica, perché «questo contrasterebbe con la formula esplicita della Costituzione che promuove l’accesso alla proprietà dell’abitazione» (225/1983). Il ‘diritto perpetuo alla locazione’, ha anche osservato la Corte, «non porterebbe a favorire la formazione del risparmio quale mezzo di accesso alla proprietà dell'abitazione, ma al contrario, facendo perdurare illimitatamente il rapporto locatizio, disincentiverebbe la tendenza al risparmio medesimo, con l'intuitiva conseguenza di ridurre - e non estendere - il numero delle persone che possono divenire proprietarie dell'immobile da adibire a propria abitazione» . (sent. 225/1983)
Al fondo di tutte le tesi appena ricapitolate, e respinte dalla Corte, vi era l’idea che la proprietà privata, stante l’art. 42 della Costituzione, deve essere regolamentata in modo da rispondere a una funzione sociale e questo limita i poteri del conduttore. La Corte ha sempre sostenuto che l’art. 42 non ha, come pure si è sostenuto da una parte della dottrina, trasformato la proprietà privata in una funzione pubblica e il senso della clausola relativa alla sua funzione sociale è quello di autorizzare il legislatore a introdurre nella disciplina della proprietà privata quei limiti che ne assicurano la funzione sociale: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. « La Costituzione dunque ha chiaramente continuato a considerare la proprietà privata come un diritto soggettivo, ma ha affidato al legislatore ordinario il compito di introdurre, a seguito delle opportune valutazioni e dei necessari bilanciamenti dei diversi interessi, quei limiti che ne assicurano la funzione sociale» . (sent. 225/1983).
Il contratto di locazione non è dunque la sede per rispondere al ‘disagio abitativo’, ma, grazie alla ‘funzione sociale della proprietà’, da una parte, il legislatore può conformarlo in modo da perseguire fini sociali. Questo è accaduto nel caso della legge sull’equo canone, che ha perseguito «scopi sociali di rimedio» alla penuria di alloggi, e che ha contemperato gli interessi del locatore proprietario (prima troppo compressi dalla legislazione vincolistica di proroga dei fitti e blocco degli sfratti) con quelli del conduttore: «La legge si incentra nella predeterminazione della durata legale del rapporto per un quadriennio, non suscettiva di anticipata cessazione per iniziativa del locatore e non condizionata alla sussistenza di una giusta causa per la sua cessazione alla scadenza; e nella sottrazione del canone alla libera contrattazione (c. d. equo canone). La previsione relativa alla durata delle locazioni abitative risponde all'apprezzabile esigenza di assicurare ai conduttori una adeguata stabilita del rapporto (sent. n. 251/1983); vale a dire del godimento di un bene primario (sentenze n. 252/1983, n. 300/1983, n. 49/1987, n. 217/1988, n. 404/1988). E a tale esigenza si connette anche il peculiare regime dell'equo canone, quantificato con riferimento a parametri oggettivi, giacché con esso si determina, nell'ambito delle locazioni abitative, una sostanziale indifferenza della persona del conduttore ai fini della redditività dell'immobile, e quindi un ridotto interesse del locatore a far cessare il rapporto. Ora, è da notare che la suddetta esigenza è stata ritenuta da questa Corte meritevole di una specifica tutela essenzialmente in ragione della grave situazione del settore dell'edilizia abitativa - caratterizzato dalla carenza di offerta di alloggi e conseguentemente dalla debolezza contrattuale della categoria dei conduttori - nella quale è intervenuta la legge n. 392 del 1978» (sent. 1028/1988)
Nel regolare i rapporti inerenti al diritto all’abitazione, come i diritti e doveri reciproci del conduttore e del locatore, il legislatore è comunque tenuto a ragionevoli bilanciamenti. Tra questi, sono costituzionalmente doverosi i bilanciamenti tra l’interesse del proprietario e beni individuali e personali altrettanto fondamentali, come quello del convivente more uxorio, in presenza di prole, a succedere al conduttore premorto (sent. 404/1988).
La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che «indubbiamente l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge» (225/83) e che « Il ‘diritto all'abitazione’ rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (217/88); un interesse che «gode di una particolare protezione come interesse di primaria importanza per la realizzazione della forma di Stato su cui si regge il nostro sistema costituzionale e che è compito della ‘Repubblica’ soddisfare (217/1988) ma ha sottolineato che non si risponde al disagio abitativo incidendo sulla proprietà privata (e trasformandola in un servizio pubblico) ma mediante l’edilizia residenziale, questo sì vero e proprio ‘servizio pubblico’.
Riepilogo • La Corte costituzionale ha accolto le tesi dottrinarie secondo cui il diritto all’abitare consiste nel diritto alla stabilità del rapporto locativo, o il rapporto tra conduttore e locatore è analogo a quello tra datore e lavoratore?
II. Dalla Costituzione discende sulla Repubblica il dovere di predisporre un servizio sociale volto a garantire il diritto alla proprietà della casa di abitazione E il dovere di impedire che qualcuno rimanga ‘senza un tetto sulla testa’.
Secondo la Corte la cd edilizia assistita è «un servizio pubblico, il cui principio giustificativo consiste nella predisposizione di interventi pubblici di varia natura comunque diretti al fine di provvedere al servizio sociale della provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti» (sent. 225/1983). «Il complesso ed annoso problema [dell’abitazione] potrà essere avviato - almeno parzialmente - a soluzione soltanto se vi sarà quel necessario e indispensabile sviluppo dell'edilizia pubblica e privata che determini un adeguato incremento dell'offerta di alloggi. (225/83)» «Creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all'abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso» . (217/1988 Rel. Baldassarre)
Il contenuto del diritto all’abitazione si specifica dunque in primo luogo, secondo la Corte costituzionale, come interesse alla proprietà della prima casa, un interesse che non deve essere soddisfatto conformando la proprietà privata e all’interno dei rapporti inter-privati, ma dai pubblici poteri, e che si specifica particolarmente in capo «alle persone più bisognose» . Il diritto all’abitazione si traduce nell’aspettativa di attività poste in essere dai pubblici poteri e nella doverosità di queste ultime; in particolare «di fronte alla grave e preoccupante situazione degli alloggi in tutti i comuni ad alta tensione abitativa, l'esigenza che i poteri pubblici favoriscano sull'intero territorio nazionale e nel modo più ampio possibile l'acquisto della prima casa da parte dei lavoratori <si ricollega (. . ) alle fondamentali regole della civile convivenza, essendo indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione. (sent. 225/1983)
Nella sua più limitata, ma essenziale, accezione, il diritto all’abitare si risolve dunque, secondo la Corte, nella aspettativa a fronte del dovere collettivo di impedire che singole persone restino prive di abitazione, risulta tanto più cogente quando si rapporta ad un Ente come il Comune, che persegue il pubblico interesse di assicurare alloggio popolare a soggetti economicamente deboli (cfr. sentenza n. 559 del 1989). «Il dovere collettivo di impedire che singole persone, e a maggior ragione se inserite in un nucleo familiare, come quello rappresentato dal genitore affidatario del figlio minore, restino prive di abitazione e tanto più cogente quando si rapporta ad un Ente esponenziale della collettività, quale il Comune, nella specifica competenza dell'assegnazione di alloggi in regime di edilizia residenziale pubblica» (sent. 559/1989).
Questo principio è stato applicato nei confronti degli enti pubblici nel procedimento di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale, davanti a leggi regionali che non prevedevano la conservazione del posto in graduatoria a favore del partner non coniugato del primo assegnatario. In questi casi la Corte ha parlato di un «diritto umano a non perdere il tetto sotto cui si è protratta la convivenza, un diritto umano rafforzato [nel convivente more uxorio sopravvissuto al partner] dal munus a provvedere all'interesse morale e materiale della prole generata, mediante la conservazione della compagine domestica stabilita della dimora» (559/1989); E ha sottolineato come sia «indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione» , e ha individuato in tale dovere, cui corrisponde il diritto sociale all'abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione, un connotato della forma costituzionale di Stato sociale (cfr. sentenze n. 404 del 1988 e n. 49 del 1987).
Lo stesso principio (diritto all’abitare come aspettativa a fronte del dovere collettivo di impedire che singole persone restino prive di abitazione) è stato applicato per affermare che le procedure di sfratto dalle case popolari non possono dare rilievo solo dare alle finalità di pubblico interesse perseguite dall'Istituto, senza bilanciamento con le condizioni di regola economicamente assai deboli dei concessionari di alloggi popolari, tanto più che «non sussiste giuridicamente identità di situazione tra inquilino di una privata abitazione e concessionario di un alloggio popolare: nel primo caso il rapporto di locazione ha un fine di remunerazione del capitale investito dal proprietario-locatore» (419/1991)
Riepilogo • La definizione e il contenuto del ‘diritto all’abitazione’ secondo la Corte costituzionale. • Alcune specificazioni rispetto a situazioni particolari
III. Il diritto all’abitare tra Stato e Regioni
Prima della riforma del titolo V Nei confronti delle Regioni, dal carattere dell’interesse all’abitare di bisogno primario e fondamentale la Corte ha tratto la conseguenza che il bisogno abitativo è ‘infrazionabile’, pertanto rientra quelle «imprescindibili esigenze di carattere unitario» che limitano le competenze regionali, (sent. 49/1987, con riferimento a programmi straordinari per l'edilizia abitativa che avevano provveduto direttamente alla individuazione delle aree ad alta tensione abitativa e adottato diverse forme di intervento statale intese a favorire il reperimento di alloggi per i medesimi). In questi casi l’intervento statale per essere giudicato legittimo dovrà superare un ‘test’: che sussista effettivamente un interesse nazionale / che questo interesse sia così imperativo o stringente o urgente da giustificare l’interesse statale / che la disciplina posta in essere dallo stato sia proporzionata, cioè rimanga nei limiti di ciò che è essenziale o necessario per realizzare l’interesse pubblico (sent. 217/1988). Sottolineare che « il diritto delle persone più bisognose ad avere un alloggio in proprietà una forma di garanzia privilegiata dell'interesse primario ad avere un'abitazione» ha anche permesso alla Corte di sottolineare che « nell'addossare il compito di predisporre tale garanzia alla Repubblica, la Costituzione precisa che la soddisfazione di un interesse cosi imperativo come quello in questione non può adeguatamente realizzarsi senza un concorrente impegno del complesso dei poteri pubblici (Stato, regioni o province autonome, enti locali) facenti parte della Repubblica. » (217/1988), così giustificando ampi interventi dello Stato nelle politiche abitative.
Dopo la riforma del titolo V In particolare, rientra nelle competenze statali la previsione di un piano nazionale di con cui lo stato fissa i principi generali che devono presiedere alla programmazione nazionale ed a quelle regionali nel settore. Nello stabilire tali principi, lo Stato non fa che esercitare le proprie attribuzioni in una materia di competenza concorrente, come il «governo del territorio» e assume anche la competenza amministrativa, limitatamente alle linee di programmazione di livello nazionale, in applicazione del principio di sussidiarietà di cui al primo comma dell’art. 118 Cost. , allo Stato medesimo, e questo anche perché «la determinazione dei livelli minimi di offerta abitativa per specifiche categorie di soggetti deboli non può essere disgiunta dalla fissazione su scala nazionale degli interventi, allo scopo di evitare squilibri e disparità nel godimento del diritto alla casa da parte delle categorie sociali disagiate» (sentenza n. 166 del 2008). È legittimo che lo stato ponga il principio che i proventi dell’alienazione di alloggi popolari siano reinvestiti nello stesso settore. (sent. Piemonte) o che sia posto un vincolo di destinazione sui proventi dei beni di edilizia pubblica appartenenti alla Regione e da essa alienati, vincolo che è l’espressione di un principio fondamentale nella materia del «coordinamento della finanza pubblica» , con il quale il legislatore statale ha inteso stabilire una regola generale di uso uniforme delle risorse disponibili provenienti dalle alienazioni immobiliari. (38/2016)
Quanto ai requisiti che le Regioni possono prevedere per l’concedere un alloggio di edilizia pubblica la Corte ha ritenuto che «È certamente ammissibile che le Regioni richiedano, per concedere un alloggio di edilizia pubblica, il requisito della residenza e della occupazione effettiva, continuativa e stabile dell’abitazione, ma questo non vuol dire certamente chi, a causa dell'esigenza di assistere in altra città il proprio padre gravemente ammalato e incapace di una vita autonoma, debba momentaneamente trasferirsi altrove perda il diritto all’alloggio: l’interesse e il dovere dell’ente pubblico a che gli alloggi di edilizia residenziale siano effettivamente goduti da chi vi ha diritto va contemperato con un superiore dovere di solidarietà sociale, qualificato come "inderogabile" dagli artt. 2 e 29 della Costituzione (419/1994).
RIPARTO DI COMPETENZE TRA STATO E REGIONE NELLE POLITICHE ABITATIVE - SCHEDA L’art. 117 assegnava alle Regioni la competenza concorrente in materia urbanistica. Col decreto lgs 112/1993 la materia ‘edilizia residenziale pubblica’ fu trasferita alle Regioni. La riforma del titolo V non menziona né l’urbanistica né l’edilizia residenziale pubblica ma usa l’espressione ’governo del territorio’.
RIPARTO DI COMPETENZE STATO/REGIONE NELLE POLITICHE ABITATIVE – SCHEDA Prima d, il riparto di competenze tra lo Stato e la Regione ordinaria è regolato nell’art. 117 Cost. In base a tale disposizione LA DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI è di competenza esclusiva statale (rientra nell’ ordinamento civile’) LE POLITICHE DI EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA sono sia statali che regionali. a) In forza della sua competenza esclusiva a determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale (art. 177 c. 2 lett. m) LO STATO DETERMINA I LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI (in questo ambito determina l’offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti e fissa i criteri volti a garantire uniformità nei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale); b) Per il resto l’edilizia abitativa rientra nel GOVERNO DEL TERRITORIO, funzione nella quale la Regione ha competenza concorrente, ovvero da esercitarsi nell’ambito di principi fondamentali dettati dallo Stato (relativi in particolare alla programmazione degli interventi edilizi, ma tra i quali rientra anche il criterio del coordinamento della finanza pubblica) c) LA GESTIONE DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE DI PROPRIETA’ PUBBLICA (ex IACP e simili) rientra nella competenza esclusiva delle Regioni (art. 117 comma 4). In materia di edilizia residenziale pubblica lo stato determina i livelli essenziali delle prestazioni e i principi della programmazione edilizia. La Regione svolge la programmazione nel suo territorio e gestisce il patrimonio immobiliare. L’edilizia pubblica è perciò detta una materia ’trasversale’.
Riepilogo Tra vecchio e nuovo titolo V registriamo una significativa continuità di atteggiamenti da parte della Corte costituzionale, tesi a garantire un ampio ruolo statale.
IV. Dall’eguaglianza alla non discriminazione. Il diritto all’abitazione tra cittadini e stranieri.
La giurisprudenza in materia di diritto all’abitazione è stata sempre caratterizzata, come del resto è vero in generale per la giurisprudenza della Corte, dall’uso del criterio di ragionevolezza. Tuttavia, in questo come in altri campi, la Corte tende sempre più spesso a ragionare in termini di discriminazione, e, questo, specialmente in materie nelle quali più ampia e profonda è l’incidenza del diritto comunitario. Questo è il caso degli stranieri residenti in Italia, rispetto ai quali si è posto negli ultimi anni con sempre maggiore insistenza il tema del loro diritto di accesso alle prestazioni di assistenza sociale e il problema di leggi regionali che stabiliscono requisiti differenti tra italiani e stranieri a questi fini. In materia, la Corte ha ammesso in linea di principio che «il legislatore possa riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione della provvidenza. «Tuttavia, non è detto che un nesso a propria volta meritevole di protezione non possa emergere con riguardo alla posizione di chi, pur privo dello status, abbia tuttavia legittimamente radicato un forte legame con la comunità presso la quale risiede e di cui sia divenuto parte, per avervi insediato una prospettiva stabile di vita lavorativa, familiare ed affettiva, la cui tutela non è certamente anomala alla luce dell’ordinamento giuridico vigente. » (222/2013).
Pertanto è stata ritenuta illegittima una legge della Regione Friuli Venezia Giulia concernente l’erogazione di prestazioni sociali, secondo la quale a tutti gli aspiranti viene richiesto di risiedere da almeno 24 mesi nel territorio regionale, mentre ai soli stranieri si impone non solo tale requisito, ma anche di risiedere in Italia da non meno di 5 anni, ove essi non siano cittadini dell’Unione, ovvero, per talune provvidenze, ove non siano titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria ovvero titolari di «permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo» (in tali casi, le norme impugnate equiparano queste persone al cittadino italiano (222/2013).
La Regione, in quanto ente esponenziale della comunità operante sul territorio, ben può, infatti, favorire, entro i limiti della non manifesta irragionevolezza, i propri residenti, anche in rapporto al contributo che essi hanno apportato al progresso della comunità operandovi per un non indifferente lasso di tempo, purché tale profilo non sia destinato a soccombere, a fronte di provvidenze intrinsecamente legate ai bisogni della persona, piuttosto che al sostegno dei membri della comunità. » (22/2013) «Ciò non significa che le politiche sociali delle Regioni legate al soddisfacimento dei bisogni abitativi non possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza, ma che questo deve essere contenuto entro limiti non palesemente arbitrari ed irragionevoli. «L’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per un verso si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia. » (22/2013)
La previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale e dirimente, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari» , non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di accesso al sistema di protezione sociale (sentenza n. 40 del 2011). Non rileva, in senso contrario, la circostanza su cui pone l’accento la difesa della Regione che il requisito in questione risponda ad esigenze di risparmio, correlate al decremento delle disponibilità finanziarie conseguente alle misure statali di contenimento della spesa pubblica. Essa non esclude, infatti, «che le scelte connesse alla individuazione dei beneficiari – necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse disponibili – debbano essere operate sempre e comunque in ossequio al principio di ragionevolezza» (sentenze n. 4 del 2013; n. 40 del 2011; n. 432 del 2005).
Così, se è vero che «La previsione di una certa anzianità di soggiorno o di residenza sul territorio ai fini dell’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, che si aggiunge al requisito prescritto per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo, costituito dal possesso del permesso di soggiorno da almeno cinque anni nel territorio dello Stato, ove tale soggiorno non sia avvenuto nel territorio della Regione, potrebbe trovare una ragionevole giustificazione nella finalità di evitare che detti alloggi siano assegnati a persone che, non avendo ancora un legame sufficientemente stabile con il territorio, possano poi rinunciare ad abitarvi, rendendoli inutilizzabili per altri che ne avrebbero diritto, in contrasto con la funzione socio-assistenziale dell’edilizia residenziale pubblica. «Tuttavia, l’estensione di tale periodo di residenza fino ad una durata molto prolungata, come quella pari ad otto anni prescritta dalla norma impugnata, risulta palesemente sproporzionata allo scopo ed incoerente con le finalità stesse dell’edilizia residenziale pubblica, in quanto può finire con l’impedire l’accesso a tale servizio proprio a coloro che si trovino in condizioni di maggiore difficoltà e disagio abitativo, rientrando nella categoria dei soggetti in favore dei quali la stessa legge della Regione Valle d’Aosta n. 3 del 2013 dispone, all’art. 1, comma 1, lettera g), l’adozione di interventi, anche straordinari, finalizzati a fronteggiare emergenze abitative. »
«Questa Corte ha da tempo rilevato che le finalità proprie dell’edilizia residenziale pubblica sono «garantire un’abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi» (sentenza n. 176 del 2000), al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla «provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti» (sentenze n. 417 del 1994, n. 347 del 1993, n. 486 del 1992). «Dal complesso delle disposizioni costituzionali relative al rispetto della persona umana, della sua dignità e delle condizioni minime di convivenza civile, emerge, infatti, con chiarezza che l’esigenza dell’abitazione assume i connotati di una pretesa volta a soddisfare un bisogno sociale ineludibile, un interesse protetto, cui l’ordinamento deve dare adeguata soddisfazione, anche se nei limiti della disponibilità delle risorse finanziarie. » Per tale motivo, l’accesso all’edilizia residenziale pubblica è assoggettato ad una serie di condizioni relative, tra l’altro, ai requisiti degli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica, quali, ad esempio, il basso reddito familiare (sentenza n. 121 del 1996) e l’assenza di titolarità del diritto di proprietà o di diritti reali di godimento su di un immobile adeguato alle esigenze abitative del nucleo familiare dell’assegnatario stesso, requisiti sintomatici di una situazione di reale bisogno.
«Nella specie, la previsione dell’obbligo di residenza da almeno otto anni nel territorio regionale, quale presupposto necessario per la stessa ammissione al beneficio dell’accesso all’edilizia residenziale pubblica (e non, quindi, come mera regola di preferenza), determina un’irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell’Unione, ai quali deve essere garantita la parità di trattamento rispetto ai cittadini degli Stati membri (art. 24, par. 1, della direttiva 2004/38/CE), sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali, in virtù dell’art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2003/109/CE, godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda anche l’accesso alla procedura per l’ottenimento di un alloggi (…) è palesemente discriminatoria. Quanto ai primi, risulta evidente che la norma regionale in esame li pone in una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla comunità regionale, ma anche rispetto agli stessi cittadini italiani, che potrebbero più agevolmente maturare gli otto anni di residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione vietata dal diritto comunitario in particolare dall’art. 18 del TFUE, in quanto determina una compressione ingiustificata della loro libertà di circolazione e soggiorno, garantita dall’art. 21 del TFUE. Infatti, il requisito della residenza protratta per otto anni sul territorio regionale induce i cittadini dell’Unione a non esercitare la libertà di circolazione abbandonando lo Stato membro cui appartengono (Corte di giustizia, sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, Stewart) Non è, infatti, possibile presumere, in termini assoluti, che i cittadini dell’Unione che risiedano nel territorio regionale da meno di otto anni, ma che siano pur sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, e che quindi abbiano instaurato un legame con la comunità locale, versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora da più anni e, per ciò stesso siano estromessi dalla possibilità di accedere al beneficio. »
Riepilogo La Corte costituzionale è stata attenta a garantire il diritto all’abitazione in termini non discriminatori tra cittadini e non-cittadini e di conseguenza ha solitamente dichiarato incostituzionali le leggi regionali che differenziano, tra i criteri di assegnazione degli alloggi di ERP, i requisiti della durata della residenza tra cittadini e non-cittadini.
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